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ENRICO DEREGIBUS – FRANCESCO DE GREGORI. I TESTI – LA STORIA DELLE CANZONI

ENRICO DEREGIBUS – FRANCESCO DE GREGORI. I TESTI – LA STORIA DELLE CANZONI

Abbiamo raggiunto e intervistato il giornalista musicale Enrico Deregibus, saggista, direttore artistico di numerosi festival, studioso, per il suo nuovo progetto artistico e culturale. L’occasione è pregiata: in un libro di oltre 700 pagine, tutti i testi raccolti e commentati di Francesco De Gregori, a cura dell’autore; un’opera imponente realizzata dal giornalista, autore e grande studioso con il volume “I Testi. La storia delle canzoni”, edizioni Giunti.  Un libro sul grande cantautore e poeta, brani che attraversano mezzo secolo della storia italiana con lo sguardo puntato all’attualità, alla società, con sfumature di quotidianità e d’amore.
La grandezza e la forza De Gregori, del grande cantautore romano dal Folk Studio in poi, è stata quella di raccontare le immagini e successivamente il grande successo di un album incredibilmente puro e bello quale “Rimmel”, un disco struggente con una forza e grandezza straordinaria, poetica.  Deregibus ha raccontato il cammino artistico e tutto il percorso di De Gregori, con grande attenzione a momenti focali, incisi nella nostra mente, come l’album realizzato insieme a Dalla “Banana Repubblic”. L’autore ha tratteggiato la figura di De Gregori brano per brano, canzone per canzone, in modo anche inconsueto, restituendoci l’immagine di uno degli artisti più amati e controversi, schivi e riservati del panorama italiano, scoprendo anche segreti e curiosità.
Lo abbiamo intervistato per Tuttorock, l’occasione è stata anche quella di parlare di cultura e di legiferazione musicale a livello nazionale.

Inevitabile chiederle, da esperto di musica italiana quale lei è, un giudizio sul Festival di Sanremo, un festival blindatissimo e difficile. Inoltre un suo parere sui tanti giovani artisti di musica indipendente: un bel segnale per la musica?
Sì, sicuramente un bel segnale. Fino a un anno e mezzo fa Amadeus per me era un presentatore televisivo come tanti, su cui non avevo opinioni particolari. Quando ho saputo della sua nomina a direttore artistico di Sanremo lo scorso anno confesso che ho iniziato a preoccuparmi, memore di Carlo Conti, altro presentatore forse assimilabile a Amadeus e che a mio avviso nella sua direzione artistica di Sanremo non aveva fatto un buon lavoro per la musica italiana.
E invece Amadeus mi ha sorpreso molto positivamente. E’ riuscito a fare una cosa semplicissima: portare al festival di Sanremo una selezione di musica contemporanea, reale. Superando così il ritardo cronico del festival, che è rimasto fermo, tranne in parte nelle edizioni di Fazio e poco altro, agli anni Sessanta, a una idea di canzone italiana retorica, melensa, ipermelodica, scontata. Sanremo a mio avviso è sempre stato un enorme fardello, un enorme handicap per tutta la musica in Italia, un tappo asfissiante. Ora invece finalmente è quello che avrebbe dovuto essere da sempre, con pregi e difetti, con canzoni più belle e altre più brutte, ma qualcosa di reale.
Ora spero in un ulteriore miglioramento: dare più importanza alle canzoni. Tutti gli artisti dovrebbero esibirsi entro mezzanotte.

Un suo pensiero sulla crisi della musica, in generale, sulla difficoltà per lo spettacolo e sui luoghi di cultura chiusi. Come si esce da una crisi del genere?
Domanda difficilissima. Nel concreto e nell’immediato si esce con un sostegno a partire da subito a impresari, club, festival, enti pubblici che vogliano organizzare concerti ed eventi con artisti italiani. Più in generale spero che arrivi presto la consapevolezza che la musica è sicuramente intrattenimento ma è anche cultura e come tale va tutelata al pari di altre arti. Le istituzioni devono muoversi anche su questo e in fretta.

L’Italia manca di una Legge Nazionale sulla Musica che tutelerebbe artisti e maestranze lavorative? E’ ancora accettabile una mancanza di questo tipo?
Certamente no. Sarebbe infatti assolutamente necessaria, soprattutto oggi. La musica è cultura e intrattenimento, come dicevo, ma è anche lavoro, è anche un fatto economico, è anche una industria che dà lavoro a tanti e che è ferma o quasi da più di un anno, salvo alcune importanti eccezioni la scorsa estate. Ed è un settore che, mi piace sottolinearlo, ha avuto in questo ultimo anno un atteggiamento paziente e ragionevole, non ha chiesto l’impossibile.

Come mai la scelta di un libro su De Gregori?
Sin da ragazzo mi ha attirato per tanti motivi, sicuramente per la sua capacità di scrittura e per la sua vocalità. Quando ho iniziato a fare il giornalista musicale è stato abbastanza naturale quindi fare un primo libro su di lui. Si intitolava “Quello che non so, lo so cantare”, è uscito nel 2003 e comprendeva la sua biografia e delle schede sulle canzoni. Poi quel libro nel tempo è stato la base, il seme per realizzare due altri grossi libri: “Mi puoi leggere fino a tardi” del 2015, che è la biografia molto ampliata e aggiornata, e questo nuovo che è fatto dalle schede sulle canzoni con in più i testi. Testi che sono stati controllati direttamente da De Gregori, quindi in pratica è un libro mio ma anche suo a tutti gli effetti.

Cosa ci lascia oggi l’eredità musicale di un grande cantautore e poeta? Cosa l’ha più colpita di lui? E qual è l’album o il brano che l’ha maggiormente colpita?
Non sono un critico musicale ma posso sicuramente dire che certamente è un caposcuola. Agli inizi degli anni Settanta ha portato nella canzone italiana un nuovo modo di scrivere canzoni, sia per i testi che per la musica. Per i testi perché con lui si è cominciato a fare quello che era già stato fatto in poesia, in letteratura, nel cinema, nella pittura, ovvero esprimere emozioni, concetti, sensazioni con totale libertà, in modo immaginifico, facendo saltare le convenzioni, a volte anche la logica. Per quanto invece riguarda la musica, lui, con altri, ha importato in Italia certe formule tipiche di alcuni cantautori di oltreoceano, da Bob Dylan a Leonard Cohen a Paul Simon. Ma ha saputo unire quelle formule a quelle della nostra canzone e a quelle della nostra musica popolare, quella musica che purtroppo nel nostro Paese è pressoché sconosciuta. O forse sarebbe meglio dire misconosciuta.
Ci tengo però a sottolineare che a mio avviso De Gregori è un grande cantautore, un artista allo stesso livello dei grandi poeti, ma che la canzone non è mai poesia e che i cantautori per me non sono mai poeti. La canzone è una forma espressiva molto diversa, che vive non solo del valore dei testi ma anche di quello delle musiche e dell’interpretazione. E, ancora di più, della interazione fra questi tre elementi. Non ha niente da invidiare alla poesia.

De Gregori è apparso sempre un artista molto riservato, schivo e a tratti ombroso. E’ davvero così?
A volte sì, forse questo nasce da una qualche timidezza caratteriale, anche se per quel che posso dire io è una persona estremamente piacevole ed anche ironica. Bisogna però considerare sicuramente che nel suo atteggiamento c’è l’influsso di quello che gli è successo nei suoi primi anni di carriera, cioè qualche scontro con l’industria musicale, le esperienze con alcuni programmi televisivi che in modi diversi cercavano di fargli fare cose che lui non voleva fare. E poi ci sono state le contestazioni di alcune frange della sinistra extraparlamentare da una parte e, all’opposto, la pressione che avvertiva dopo l’enorme successo di Rimmel nel 1975, con anche il rischio di diventare solo il bel ragazzo che piaceva alle ragazzine. Insomma tante cose diverse che non era semplice gestire per uno che aveva dai 22 ai 25 anni e che forse hanno portato nella sia vita pubblica a un po’ di comprensibile diffidenza verso l’esterno.

E’ vero che De André lo andò ad ascoltare una volta al Folkstudio di Roma, molto incuriosito?
Sì, anche se forse non si trattava del Folkstudio ma di un locale che si chiamava Folkrosso. Comunque come racconto nel libro “Mi puoi leggere fino a tardi” De Gregori era giovanissimo e De André rimase molto colpito, in particolare dalla sua traduzione di un pezzo di Bob Dylan, Desolation Row, che lui aveva tradotto come Via della povertà. Da lì è nata una collaborazione che ha portato a diverse canzoni scritte insieme e cantate da De André. A cui va riconosciuta questa grande capacità di scegliere degli autori di altissimo livello per affiancarlo nella scrittura delle sue canzoni. In quanto a De Gregori, De André una volta ha detto: “se io sono il liceo, De Gregori è l’università”. Penso renda bene l’idea della sua stima per lui.
Collaborazioni anche con il grande Lucio Dalla: cosa ha preso l’uno, dall’altro?

C’è stato un grande scambio. Si potrebbe dire che Dalla ha assorbito molto del modo di scrivere i testi di De Gregori, mentre De Gregori ha preso parecchio musicalmente da Dalla. Ma penso che lo scambio sia stato  più ampio e più variegato, dovuto anche al fatto che sono artisti e persone molto diverse che si sono trovate benissimo insieme in più di un’occasione e a distanza di molti anni.

Collaborazioni anche con il grande Lucio Dalla: cosa ha preso l’uno, dall’altro?
C’è stato un grande scambio. Si potrebbe dire che Dalla ha assorbito molto del modo di scrivere i testi di De Gregori, mentre De Gregori ha preso parecchio musicalmente da Dalla. Ma penso che lo scambio sia stato più ampio e più variegato, dovuto anche al fatto che sono artisti e persone molto diverse che si sono trovate benissimo insieme in più di un’occasione e a distanza di molti anni.

E’ stato sottovalutato, secondo lei, Lucio Dalla? Eppure ha affrontato temi importanti con grande delicatezza.
Mah, non saprei. Mi pare sia molto considerato, giustamente. È stato un artista di grande creatività, eclettico, capace di arrivare in profondità così come di essere lieve e leggero. È uno dei cantautori che amo di più.

Cosa possono trovare gli appassionati e gli amanti della musica, nel suo libro? Ci sono curiosità meno note?
Be’, è un libro di 720 pagine, che messe insieme a quelle del precedente sono quasi 1100, quindi dentro ci sono moltissime cose. Ad esempio il rapporto con De André o quello con Dalla li ho raccontati anno per anno in tante pagine nella biografia del 2015.
In questo nuovo libro ho voluto invece parlare delle canzoni da tanti punti di vista, dei testi ma anche molto della musica, ho voluto raccontare come sono nate le canzoni e come sono cambiate nel tempo, cercando di analizzarle ma anche di raccontare aneddoti e cose divertenti.

Qual è l’artista di cui vorrebbe in futuro scrivere un libro, e perché?
Da tanti anni ho in mente di fare su Paolo Conte un tipo di lavoro come quello su De Gregori, biografico ma magari anche sulle canzoni. Spero prima o poi di riuscirci. Per ora l’idea di un prossimo libro è legata ad un festival che dirigo da vari anni in Piemonte, la mia terra. Si chiama “PeM – Parole e musiche in Monferrato”, un festival che è fatto in gran parte di interviste che faccio in pubblico ad artisti vari, da Tosca a Enrico Ruggeri, da Diodato a Nada. L’idea è quella di trascriverle e pubblicarle.

Ho in mente la musica che “resiste”, come le corde di uno strumento resistono sotto alla pressione dei polpastrelli. Che futuro ha la musica?
Ho davvero poche certezze al proposito. Una però ce l’ho: la musica ha una enorme forza, una capacità di entrare in profondità nelle persone come hanno poche altre arti, quindi ci sarà sempre. E ci sarà sempre qualcuno che salirà su un palco, anche solo virtuale, e suonerà e canterà per delle persone. La musica dal vivo ci sarà sempre. Sulla musica registrata, che fra l’altro è una creazione relativamente recente, il discorso è molto diverso. Sarà sempre più liquida, come si dice, ma penso resisterà anche una nicchia di persone che vorrà avere un supporto fisico, che sia cd, vinile o chissà che altro.Di più non saprei proprio dire. Sto alla finestra fiducioso.

Le piace la trap/rap, è davvero il linguaggio giovanile o è il linguaggio che allaccia i rapporti con loro?
Devo dire che la trap e una certa parte del rap più recente quando sono usciti mi hanno lasciato perplesso, anche se il fatto di essere nati fuori dall’industria musicale, nelle strade e nelle camerette, li rendeva dal mio punto di vista interessanti. Allo stesso tempo il fatto di essere nato nel 1967, quindi di essere vecchio per certe cose, mi ha reso difficile comprendere certe forme espressive, dare loro un valore estetico. Diciamo che lì ho capito che c’era qualcosa di nuovo che aveva parametri diversi da quelli miei.
Presumo che sia successo qualcosa di simile negli anni Settanta quando è uscito il punk, che nasceva da una fortissima urgenza espressiva ma aveva, almeno all’inizio, una grande povertà tecnica. Anzi, quella povertà tecnica era un baluardo, era il modo per opporsi a quel che c’era stato prima. Poi una parte del punk ha iniziato a incrociarsi con altri generi, si è evoluto o comunque modificato. Sta succedendo lo stesso per la trap e questo sta dando origine a belle cose. Ad esempio Madame, che ora con Sanremo è arrivata anche al grande pubblico.
Diciamo che io ho i miei gusti, ma tutto quello che nasce per una genuina esigenza espressiva val la pena di essere tenuto presente. Vediamo cos’altro succederà in futuro.

Alessandra Paparelli