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MATTEO MARCHESE – Intervista al batterista, produttore e arrangiatore

MATTEO MARCHESE – Intervista al batterista, produttore e arrangiatore

In occasione dell’uscita del suo primo album “DOT” (etichetta The prisoner records / distribuzione The Orchard), ho avuto il piacere di intervistare il batterista, produttore e arrangiatore Matteo Marchese.

Matteo Marchese nasce a Genova nel 1976 da padre genovese e madre istriana e da piccolissimo si trasferisce in Val Camonica. I luoghi sono fondamentali per il suo futuro approccio alla musica. La contaminazione tra la calma del mare e la durezza della montagna lo porteranno a cercare un’unione tra i due ambienti. La distanza tra i luoghi viene percepita come la distanza tra le persone e nella musica trova il modo di sentire un’unione. Studia batteria world e funk e insieme ai suoi maestri scopre che il mondo può fornire una tavolozza di impressioni e di viaggi. Apre uno studio di registrazione con un socio, il Cavò Studio, che diventa una delle realtà jazz più affermate nei primi 2000. Lavora con Ishtar, Schema, Philology, Sony, Warner e con musicisti del calibro di Mario Biondi, Rosalia de Sousa, Lee Konitz, Fabrizio Bosso, Renato Sellani, Paolo Fedrigotti, Moni Ovadia, Ares Tavolazzi. Al lavoro di fonico e produttore affianca come batterista dal vivo e in studio artisti come Sirya, Ghemon, Robi Zonca, Ila and The Happy Trees, Tonino Carotone, Flabby. Nel 2005 Inizia il suo percorso alla scoperta della musica dell’uomo e con Carlo Sinigaglia stabilisce un nuovo modo di fare musicoterapia che viene descritto nel libro “Il giorno in cui abbiamo inventato l’acqua calda”. Inizia a tenere seminari e corsi (Fondazione Besta, Ospedale Don Gnocchi), oltre che a operare in contesti relazionali e di riabilitazione con forme di handicap grave. Decide di vendere lo studio e di usare la musica per aiutare le persone. In questo percorso impara quanto la musica possa fare per un essere umano e decide di farne la sua principale attività. Un modo di crescere come persona e musicista. Nella sua musica porta le esperienze fatte nel mondo parallelo della mancanza di relazione. Il disco “DOT” è la prima forma che Matteo ha trovato per descrivere geograficamente ed emotivamente il suo mondo cercando di unire i posti dentro e fuori di noi.

Ciao Matteo, benvenuto su Tuttorock, parliamo subito di “DOT”, il tuo primo album solista, innanzitutto ti chiedo come mai hai scelto questo titolo.

Ciao Marco. Dunque, il titolo vuole evidenziare il fatto che per me era giunto un tempo di bilanci, di fare il punto della mia crescita artistica e umana. Da qui l’idea di utilizzare un nome che fondesse anche la mia voglia di chiudere un paragrafo e cominciarne un altro. Da produttore e musicista per altri ad autore e produttore anche per me stesso.

Quando e perché hai sentito l’esigenza di fare un disco tutto tuo?

Ci ho messo una ventina d’anni a mettere a fuoco anche solo la possibilità di poter fare da me per me. Subito prima del Covid ho chiuso una collaborazione artistica molto bella e importante e quello è stato per me il segnale che era arrivato il momento di trovare un’altra sfida. Da lì la voglia e la consapevolezza che era giunto il momento di distillare tutte le cose imparate negli anni per vedere cosa ne sarebbe saltato fuori.

Gli ospiti presenti nel disco sono stati scelti in base a cosa?

Gli ospiti del disco hanno tutti la stessa caratteristica di partenza: sono musicisti che amo. Poi la scelta è stata quella di vedere come la loro personalità si sarebbe fusa con la mia visione dei brani. È stato molto interessante vedermi con i loro occhi.

Io ho apprezzato tutto il disco dall’inizio alla fine, non riuscirei a scegliere un brano che preferisco agli altri, tu, invece, se dovessi scegliere quello che più ti rappresenta quale mi diresti?

Credo che ogni brano di questo album sono io. “Africa Tornerò” è però quello in cui mi sono sentito veramente a casa a livello di scrittura e di performance. L’estetica sonora è la musica che sento.

Quando e com’è avvenuto il tuo avvicinamento alla musica?

Vengo da una famiglia di ascoltatori di musica, classica e lirica in particolare. Da piccolo mi sono innamorato dei dischi che mio nonno portava dai Caraibi dove lavorava sulle navi da crociera e poi, alle medie, la professoressa Schiavi mi ha dato la spallata finale, mostrandomi come la musica fosse un quadro d’aria in movimento.

Nella tua carriera hai suonato con tantissimi artisti, quanto ti hanno arricchito sia dal punto di vista umano e musicale?

Credo che la cosa fantastica di suonare per artisti molto bravi sia che ti prendono per mano e ti portano dentro al loro viaggio sonoro. Vedi posti dove da solo non saresti mai andato. Anche dentro di te. Collaborare in musica ti consente di vivere la relazione umana in un modo molto profondo.

Un artista con il quale ti piacerebbe particolarmente lavorare?         

Siccome purtroppo Battiato non è più in questo mondo, direi sicuramente Jovanotti.

Sei molto attivo anche per quanto riguarda la musicoterapia, quando è nata e cosa ti ha insegnato questa esperienza?

Lavoro come musicoterapeuta da più di quindici anni. E in questi anni ho accompagnato e incrociato la mia vita con moltissimi tipi diversi di sofferenza e di handicap. Umanamente questa esperienza mi ha insegnato che raramente vediamo davvero e ancora più raramente riusciamo a fare un silenzio tale per cui permettiamo all’altro di dirci davvero. Se c’è una cosa che ho veramente conosciuto in questi anni è stato il silenzio. Lì dentro si propaga tutto. Dalla relazione, al suono, al dolore, alla gioia. A volte rimanere in ascolto è la forma più forte di amore che ci possa essere.

Una domanda che faccio a tutti, i cinque dischi che porteresti sempre con te.

A kind of blue” di Miles Davis, “Germi “degli Afterhours, “All Directions “dei Temptations, “Expensive shit “ di Fela Kuti e “Aman Iman” dei Tinariwen.

Con quale formazione presenterai dal vivo questo album?

Sto facendo diversi ragionamenti perché il disco è molto vario e ha molti ospiti. Mi piacerebbe portare al pubblico una via di mezzo tra un dj set e una live band. Una sorta di viaggio tra le canzoni del disco che mischi elettronica e funk con un aspetto visivo potente.

Grazie mille per il tuo tempo, ti lascio piena libertà di chiudere l’intervista come vuoi.

Chiuderei dicendo che spero il disco vi piaccia e che riusciate ad ascoltarlo con calma. Ho scritto questi brani pensandoli come una playlist da viaggio. Generi, culture, colori differenti per ogni brano. Senza fretta e con tanto ritmo. Ho pensato di farvi fare un giro per il mio mondo. Ci vediamo tra le canzoni.

MARCO PRITONI