Now Reading
“Abbracciamo la bellezza della diversità” – Intervista a Gegè Telesfor …

“Abbracciamo la bellezza della diversità” – Intervista a Gegè Telesfor …

Gege Telesforo

Sul finire dello scorso mese di Marzo è uscito “Il Mondo in Testa”, nuovo album del grande Gegè Telesforo, che vi suggerisco accoratamente di ascoltare.
Tutto ciò mi ha dato l’occasione di poter fare quatto chiacchiere con l’artista, che senza indugio vi invito a leggere qui di seguito:

Ciao Gegè, è un piacere averti sulla pagine di TuttoRock!
Ci parli del nuovo album? Mi sembra un disco estremamente ritmico, pieno di culture diverse, che ci da la possibilità di viaggiare pur restando a casa

L’idea era quella di raccontare il mio pensiero e il mio modo di vivere attraverso la musica. Credo di essere prima di tutto una persona curiosa, e con una mentalità molto aperta. Tutto questo doveva quindi venire rappresentato in un progetto nel quale condensare 40 anni di attività, di viaggi, di avventure, di cibi esotici mangiati e metabolizzati e di incontri fortunati con grandi musicisti ed eccellenti talenti della nuova generazione. Spaziando in lungo e in largo per il globo terracqueo. Un musicista credo infatti debba essere sempre pronto ad accogliere la bellezza della diversità, non solo in musica. Questo è il concept su cui ho iniziato a costruire “Il Mondo in Testa”, che come hai notato anche tu rappresenta ritmicamente la varietà di tutto quello che ho vissuto. Non c’è una connotazione geografica vera e propria, tutte le parti ritmiche sono un insieme di elementi raccolti da varie esperienze. Già nella titletrack ci sono novanta tracce di strumenti. Di cui più della metà sono strumenti a percussione, presi da culture differenti. Come il marranzano siciliano (lo scacciapensieri ndr.), il berimbau brasiliano, il bombo leguero argentino, e poi ancora Cuba, l’Africa e molto altro. Tutte le clave ritmiche utilizzate hanno realizzato lo scheletro dell’album. Il lavoro è stato molto lungo, ed è terminato nell’arco di un anno e mezzo.

D’altronde è proprio nello spirito del jazz quello di unire diverse culture musicali

Esatto, è proprio così. Io ho un background assolutamente jazz, sono nato e cresciuto in una casa di dischi e strumenti, con un papà architetto appassionato compulsivo del genere. E naturalmente poi crescendo ho iniziato a comprare anch’io i vinili, scoprendo che la musica era infinita. Il jazz insegna questo, d’altronde l’evoluzione della musica, e dell’arte in generale, continua a generare nuovi stilemi proprio grazie all’incontro tra varie culture. Come è  accaduto anche nella storia del rock. Adesso poi la musica va per stereotipi unicamente per i brani che sono presenti nelle classifiche discografiche. Oggi con il digitale abbiamo la possibilità di poter curiosare in archivi che fino a pochi anni fa erano inaccessibili. Ognuno è libero di scegliere il proprio suono da seguire.

Com’è promuovere l’uscita di un disco in questo particolare periodo che stiamo vivendo?

Mi sono sentito un po’ a disagio. L’operazione di caricare i brani sulle piattaforme digitali viene fatta con qualche mese di anticipo. Quindi a fine gennaio chiuso il mastering di Luca Bulgarelli abbiamo caricato sulle piattaforme, decidendo come data di uscita del disco il 27 Marzo. Quando poi è arrivato il decreto dell’8 Marzo abbiamo dovuto scegliere se rimandare o confermare la data di pubblicazione. Alla fine ho riflettuto che la musica serve a sottolineare certi momenti, a raccontare la nostra storia. Dunque abbiamo deciso di confermare l’uscita per dare un sollievo, un sorriso, un po’ di energia agli appassionati. E ora stiamo facendo promozione come si può, con il telefono, Skype, le radio ecc. Per ora siamo molto soddisfatti perché per un paio di settimane dal momento della pubblicazione abbiamo dominato le classifiche del catalogo del jazz. E continuo ad avere feedback positivi su un album trasversale. Quando mi chiesero in che catalogo inserirlo fra “jazz”, “R&B”, “world music” ecc. io dissi “Afro-Meridionale”.Mi risposero che non esisteva come catalgo, e quindi lasciai fare a loro.

Io credo sia molto complicato da etichettare, tra l’altro è uno di quei dischi che ad ogni ascolto successivo ti fa cogliere nuove sfumature di colore

Lo capisco benissimo perchè un disco pieno di musica. Ricco di talenti, che hanno impreziosito i vari brani. C’è il background jazz, ci sono gli assoli ma sono tutti inseriti in strutture ben definite. Abbiamo fatto un lavoro molto complesso, con grande attenzione in tutte le fasi, dalla registrazione al mix, dagli editing al mastering. Si è curato tutto al massimo del nostro potenziale. Considerando poi che è un disco indipendente e low-budget, che è l’unico modo che abbiamo per continuare a realizzare produzioni con le nostre forze. Sono veramente molto contento di come sia venuto. Per farlo meglio avrebbe dovuto farlo un altro. Io meglio di così non ci sono riuscito.

Negli ultimi anni ho notato con piacere una grande apertura del jazz, e dei festival jazz, alle nuove sonorità. Contaminazioni, meticciati sonori, uso dell’elettronica e quant’altro. Tu come la vedi?

Trovo che questa apertura sia un’ottima cosa. Come dicevamo il jazz è una musica molto aperta, e viene celebrato ogni anno dall’Unesco per tutti i suoi valori, per la sua libertà nell’abbracciare varie culture. Si basa poi sul’improvvisazione degli artisti, per quanto non sia l’unico elemento che lo costituisce. Quindi questa mescolanza come dici tu io la trovo eccezionale. Poi che resti l’etichetta del “jazz festival” è un’altra cosa. In alcuni ci trovi veramente di tutto, anche la neo-classical. Il jazz credo che non identifichi più un genere con un suono preciso, ma un modo di vivere e di pensare la musica.

Sei stato protagonista di un momento storico in cui si faceva musica il televisione in maniera nettamente diversa rispetto ad oggi. Cos’è “andato storto” per essere arrivati alla situazione attuale?

Sono cambiate tante dinamiche tra le quali la mentalità del pubblico. Sono nate tante televisioni che hanno puntato su cose più commerciali, e la Rai si è dovuta adeguare, puntando su cose che fanno ascolto. Evidentemente la musica non faceva più tanto audience, come altri programmi. Adesso in televisione ascolti musica quasi unicamente perché quell’artista deve promuovere il suo materiale. Quello che facevamo noi a DOC invece era retribuire gli artisti per proporre delle vere e proprie performance dal vivo, con tanto di backline e strumentazioni varie ed eventuali. Gli artisti venivano quindi pagati per fare il loro mini-concerto in TV. Oggi non c’è un budget per questo. Oggi si fa musica unicamente per promozione o per trovare la nuova popstar del futuro. Che poi non so quanto ce ne sia il bisogno di trovare o creare queste nuove popstar. Con tanti bravissimi musicisti che ogni anno escono fuori dalle nostre scuole di musica, e che sono costretti ad emigrare per trovare sbocchi lavorativi e rappresentare l’eccellenza della musica nel nostro paese. Quindi non si trovano più quei programmi di musica come facevamo noi, se non per alcune produzioni straniere che vengono acquisite da canali come Sky Arte o Rai 5, rete con la quale io collaboro.

Com’è stato il tuo primo approccio alla musica in generale, e poi in particolare allo scat?

Come ti dicevo sono nato in una casa dove si ascoltava jazz tutti i giorni. Dunque questo linguaggio ha fatto breccia in me in modo molto naturale, finché non mi sono appassionato sul serio e ho iniziato anch’io a cimentarmi con lo studio. Con la voce è successo che avendo una memoria spaventosa mi divertivo a memorizzare temi ed assoli del be-bop di Charlie Parker rifacendoli vocalmente appunto.  Quindi andando avanti con lo studio sono diventato un professionista di un’arte più unica che rara. L’improvvisazione vocale viene insegnata nei conservatori ma poi a metterla in pratica con tutti i crismi siamo veramente in pochissimi nel mondo. Ora ci sono dei ragazzi molto bravi della nuova generazione che sicuramente porteranno avanti la cosa

Su TuttoRock abbiamo una rubrica chiamata “ConsigliPerGliAscolti” dove gli artisti propongono ai nostri lettori degli album che per loro sono stati importanti. C’è un disco che vorresti consigliare a chi leggerà questa intervista?

Ce ne sono molti che mi hanno segnato. Te ne dico due, anzi tre. Due che ascoltavo da bambino e l’altro che da adolescente mi ha cambiato la vita. I primi due sono degli album che mostrano la belezza del jazz, e sono ad opera di un’accoppiata di mostri sacri come Louis Armstrong e Ella Fitzgerald. Si intitolano “Ella and Louis” e “Ella and Louis again”, dove accompagnati dal quartetto del pianista Oscar Peterson, con Herb Ellis alla chitarra, cantano uno standard jazz ma soprattutto si divertono facendo musica. Che la cosa più bella. Quello è il periodo del jazz che preferisco. Successivamente si è evoluto, è diventato più strumentale e lo hanno reso in qualche modo “intellettuale e complesso”, allontanando un po’ il pubblico.  Oggi alcuni musicisti americani della nuova generazione stanno recuperando la voglia di fare spettacolo, di intrattenere il pubblico, pur mantenendo fede alla loro preparazione e al loro talento. L’altro disco che ti dicevo è invece “Sex Machine” celebre album dal vivo di James Brown, che mi ha folgorato. Una delle cose per le quali sono riconosciuto è quello di aver portato l’arte dello scat nel funk e nel groove, ed è anche grazie a quell’album che ciò è avvenuto.

Grazie mille per questa bella chiacchierata!

Grazie a te!

Intervista a cura di Francesco Vaccaro