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YO YO MUNDI – “LA RIVOLUZIONE DI UN BATTITO DI CIGLIA” – LA RIVOLU …

YO YO MUNDI – “LA RIVOLUZIONE DI UN BATTITO DI CIGLIA” – LA RIVOLU …

YO YO MUNDI colore 3 ph Ivano A Antonazzo

Intervista agli Yo Yo Mundi, band straordinaria che non ha bisogno di presentazioni. Gruppo folk rock storico, una lunga carriera artistica, 31 anni di percorso artistico. Nel loro lungo percorso, hanno spaziato dalla canzone d’autore al combat folk, allargando negli anni i loro progetti, gli orizzonti artistici a contaminazioni artistiche varie come il teatro, la letteratura, il cinema, le arti in generale. Una carriera vissuta con trasparenza e coraggio, scelte e prese di posizioni non sempre facili, temi sociali affrontati. Grandi collaborazioni artistiche e progettualità insieme a grandi nomi, su tutti Gianni Maroccolo, Finardi, Banda Osiris. Ci presentano il loro ultimo lavoro, l’album “La rivoluzione del battito di ciglia”, un tema prezioso e importante quale il cambiamento ma anche la “rivoluzione gentile”.
Abbiamo incontrato Paolo Archetti Maestri, voce della storica band folk rock piemontese

Partiamo dal vostro ultimo album “La rivoluzione del battito di ciglia”, ha un’idea comune molto precisa e un doppio filo conduttore: la rivoluzione, ossia un cambiamento drastico, e l’idea gentile del battito di ciglia. Vi riferite ad una rivoluzione gentile, pratica, quotidiana e che non può più attendere?
No, non può più attendere, ce lo ripetono, a ragione, in ogni occasione i ragazzi di Friday For Future, ma ce lo ripetono anche le persone che soffrono, le comunità che si sfaldano, il pianeta che non regge la nostra folle e assassina corsa verso una economia non più sostenibile e una logica del profitto non più accettabile. Nel nostro album, c’è anche questa esigenza di muovere il pensiero, il nostro e quello di chi si avvicinerà alla nostra musica, c’è il desiderio di essere migliori di quello che siamo stati fino ad ora. Più coraggiosi, anche, molto più determinati a non pensare solo al nostro orticello. Ci piaceva tanto questa cosa di mettere nella stessa frase due concetti opposti, un vero e proprio ossimoro. La parola rivoluzione così piena di forza e di energia declinata insieme al battito di ciglia, atto spontaneo e delicato. Uno sposalizio tra opposti che può generare qualcosa di davvero inedito, quella – tanto – desiderata rivoluzione gentile che finalmente cambierà il mondo nel segno del rispetto e della tutela dell’ambiente, del pianeta, delle differenti culture e dei diritti delle persone e di tutte le specie viventi. Rivoluzione, cioè un atto potente, energico, collettivo e certamente mosso dall’urgenza di cambiamento insieme al battito di ciglio, che invece è un atto spontaneo, naturale, istintivo, incontrollabile. Questo è il doppio fil rouge che unisce tutte le canzoni dell’album de La rivoluzione del battito di ciglia. Questa nostra proposta di rivoluzione gentile cade in un momento storico assai particolare e assai difficile: cerchiamo risposte che non troviamo, risposte alle nostre domande di felicità e diritto all’esistenza sostenibile e eguale che politica, ideali, clima non ci restituiscono.

Nei vostri lunghi 31 anni di carriera, vi siete spesi molto per temi sociali, prese di posizione e atti di coraggio. Perché il nostro Paese non è in gradi di attuare un vero cambiamento a servizio dei cittadini, dell’ambiente, dell’accoglienza e dell’inclusione, della cura verso i più deboli?

Perché forse abbiamo perso il senso della collettività, in nome di un individualismo paradossale e ai limiti dell’assurdo. Siamo ripiegati su noi stessi, senza capire più che la nostra vita non avrebbe alcun senso senza gli altri, senza gli scambi umani, senza le esperienze comuni. Senza l’attenzione per la natura, per il sociale, per le fasce più deboli, per i nostri anziani, per le generazioni future. Corriamo verso il centro, lasciamo le periferie e le campagne a un destino di sofferenza e solitudine, senza ricordarci che il nuovo nasce sempre dall’incontro dei margini, mai dallo scontro del nucleo con un altro nucleo. Senza ricordarci che la vita, il sogno, il futuro si trovano proprio, lì, nella bellezza dei margini, come cantavamo un po’ di anni fa. Vincono il populismo, il sovranismo e, purtroppo, anche i nuovi fascismi, noi dobbiamo impegnarci a rovesciare questa tendenza, l’unica strada possibile è la presa di coscienza. E imparare cose nuove, informarci, provare ad essere migliori. Ci vorrebbe una scossa rivoluzionaria determinata, implacabile, collettiva, ma gentile. Tante carezze, forse, valgono più di uno schiaffo.

Qual è stata, nella vostra lunga carriera, l’esigenza narrativa più forte?

Quella di restituire. Nelle nostre canzoni, nei nostri suoni, nei nostri racconti c’è la sintesi di quello che ci emoziona, che ci ha fatto sognare, che ci incuriosisce, ma c’è anche spazio per la voce che ci chiede di amplificare urgenze e allarmi. Noi con tutta questa meraviglia, bruta e grezza, ma vibrante e poetica, piena di rivoluzioni e di battiti di ciglia, costruiamo le nostra narrazione e troviamo la musica che meglio la rappresenti. E le nostre canzoni, una volta composte e\o registrate diventano vive solo ed esclusivamente quando le restituiamo al tempo, alle storie e alle persone che le hanno rese possibili. Senza gli altri la musica muore.

Le persone cercano risposte, oggi come ieri: la politica non offre e non ha mai offerto risposte esaustive e soddisfacenti per la gente. Nell’album esprimete la voglia e il bisogno di tornare ad atti collettivi fraterni. Quali?

Noi siamo fermamente convinti che sia giunta l’ora di tornare ad atti collettivi fraterni di scambio, baratto, condivisione, unità di intenti. Ci hanno divisi, non solo per imperare, ma per trattarci, più facilmente, come numeri, come consumatori consumati, come burattini digitalizzati nelle spire di qualche algoritmo. Ripartiremo dalla collaborazione, dalla solidarietà, dall’intreccio delle arti e dal lavoro collettivo, nasceranno movimenti, produrremo manifesti, ci aiuteremo l’un l’altro, torneremo ad agire in orizzontale, rovesciando l’orrenda torre verticale dello share e del profitto. Tornerà la possibilità di scegliere – quella vera, senza artifizi e cookies – e non ci faremo più imporre niente dalle leggi grondanti di nulla di un mercato moribondo. E ci riprenderemo tutto, con gli interessi, conquisteremo spazi, inventeremo nuove forme di democrazia, uccideremo l’ovvio, faremo strage di banalità e scurrilità e la qualità, il sogno, la creatività, la libertà espressiva, l’arte e la cultura torneranno a diffondersi liberamente in Italia e nel pianeta tutto. È ora di riprenderci il senso della vita, di limitare sempre più questi insostenibili condizionamenti imposti sempre e solo nel nome del profitto e delle, ormai irricevibili, regole di share. E noi, che crediamo nella forza del gruppo, sappiamo bene che non può esistere altra strada di lotta e ribellione che non sia il sogno collettivo. Noi non abbiamo dubbi, lotteremo per questo ogni giorno della nostra vita.

Resistenza, resilienza o entrambe?

Entrambe, anche se la seconda sta diventando un termine un po’ abusato, che a volte svuota di significato anche la prima. Provo a spiegare: resistere, intanto, non è solo un atto di forza, ma è una pratica di memoria, è il racconto della nostra storia, è il rispetto nella lotta, la lotta nella speranza, la speranza nei nostri sogni di futuro. Ed è un termine che racchiude l’agire collettivo, la resilienza è molto personale più complesso declinarla al plurale, per questo tendo ad essere più resistente che resiliente.

Mi è venuta in mente l’immagine delle corde degli strumenti musicali, le corde che resistono alla pressione delle dita. Come nella vita, bisogna avere la capacità di resistere alla pressione per far nascere la “musica migliore”?

È un’immagina molto bella, sembra di sentirle vibrare quelle corde, grazie! Noi viviamo il privilegio e i limiti del vivere in provincia, la pressione non è di casa qui. Qui c’è l’ambiente ideale per intrecciare esperienze, per creare, per incontrarsi e suonare, per godere del tempo lento e del tempo buono. Per contro vivere in provincia ci tiene troppo lontani dalle possibilità del “qui ed ora”, e questa distanza non ci ha permesso di impastarci con centri di potere artistico che generano occasioni lavorative per gli artisti che vivono e operano nelle grandi città. Ma noi esistiamo da 31 anni, e siamo ancora qui nella formazione originale – che è diventata nel tempo un collettivo di una decina di persone -, ma che non di rado si ritrova compatta per scaldare qualche palco, come grandi amici e instancabili e felici compagni di questo viaggio meraviglioso che ancora continua e si rinnova.

Un tuo, vostro, pensiero sulla crisi della musica, sulla difficoltà in questo nostro Paese (non solo in emergenza sanitaria) di praticare bellezza, di fare cultura, di vivere di arte e spettacolo.

Le radio, quelle commerciali, trasmettono dieci brani in rotazione dura, è o non è fascismo mediatico? Nemmeno più Conte, De Gregori, Capossela, Fossati o Battiato mandano in onda. E la TV? Sempre il soliti. Poi ci lamentiamo del calo culturale, pazzesco, no? Si pensa solo a produrre musica da consumare: chimica, piena di pesticidi, vuota di sogno e creatività. Solo profitto, solo fama e visibilità, qualità? Rara. E, infatti, la musica sta morendo, muore quella live, muore quella originale, creativa, di protesta, di narrazione. Le nuove generazioni sono costrette alla gogna dei talent, della competizione. È schifoso costringere le nuove generazioni alla competizione. E poi la musica in Italia spesso è molto plasticosa, troppo artefatta (l’abuso di autotune non è ormai insopportabile?) e si capisce che è musica poco suonata e pochissimo musica d’insieme. Tematiche? Per scherzo – con rispetto, sia ben chiaro – le chiamiamo le canzoni della cameretta. Hanno forza poetica, tal volta, ma solo centripeta. Non più centrifuga, questo è un problema se si fa arte. L’immedesimazione poi è limitata e generazionale. Raramente ascoltiamo canzoni che volano alte. Ed è un gran limite ed un gran peccato. Perché ci sono tracce di talento in giro, soprattutto tra chi non fa musica commerciale. C’è poca voglia, poi, di approfondire. Vizio tipici di quest’epoca che illude le persone di sapere già tutto, avendo a disposizione la tecnologia e la possibilità di cercare in tempo reale le risposte nel web. Le persone, complice la tecnologia che solo apparentemente semplifica (ma in realtà appiattisce creatività, professionalità e talento), credono di saper fotografare, di saperne di grafica, di saper registrare e di saper suonare o cantare, con il risultato di abbassare la qualità, sostituendosi ai professionisti che così perdono risorse e lavoro. Queste modalità si riflettono nelle attività culturali che prima nascevano dallo studio, dal dialogo, dal confronto, dall’ascolto di chi ne sapeva qualcosa più di noi, e poi, ovviamente, anche dalle esperienze raccolte, dallo sfogliare un libro o un giornale, dall’andare ai concerti o agli spettacoli in genere, alle mostre o al lavoro di ricerca e reperimento di materiali. Questo è, a tutti gli effetti, quello che noi Yoyo chiamiamo mancanza di curiosità e che consideriamo uno dei drammi di questa stagione al tramonto. Si esce meno, questo si sa, anche prima del lockdown. Pochi concerti, pochi spettacoli teatrali, poca cultura, pochissimo coraggio nelle scelte. Si va solo ai grandi eventi, per quelli sì, si spendono denari e ci si muove, forse perché modellati ad hoc nella creta del “must”. Per tutto il resto, ormai, vince il messaggio del “non vale la pena” tanto c’è già tutto su internet o in tv. Arriverà il momento in cui non sapremo più davvero se a certi eventi passati partecipammo fisicamente o solo più virtualmente! Bisogna creare nuovi spazi dove la musica non sia mescolata a nulla di distraente, luoghi per la musica dove si va solo per la musica, per godersela appieno.

I luoghi di cultura sono stati chiusi per primi:

Purtroppo, sì. Gli artisti, tutti, sono stati penalizzati pesantemente, anche ingiustamente, direi. Ci hanno anche un po’ sconvolto questi continui appelli dei “famosi” che, durante il primo lockdown, si preoccupavano pubblicamente quasi sempre solo ed esclusivamente dei tecnici che lavoravano per loro, dimenticandosi di tutto il nostro mondo colorato e creativo di artisti da strada, di piccole e medie compagnie teatrali, di gruppi e musicisti – cosiddetti – di nicchia, gli invisibili, appunto, questo la dice lunga sulla mancanza di unità nel nostro settore. Ma non vogliamo unirci al coro dei troppi lamentosi, in questa Italia incapace di equilibrio, consapevolezza e spirito di insieme. Ci siamo adeguati alle indicazioni del governo, siamo senza lavoro da febbraio e d’estate, complice la paura e le incertezze, abbiamo tenuto solo una manciata di concerti (bellissimi, però). Noi avremmo voluto che gli aiuti INPS, denari a fondo perduto, fossero solo anticipazioni di cachet per concerti futuri che stato, enti, amministrazioni si potevano impegnare di organizzare una volta finita l’emergenza. Non sussidi, ma lavoro, questo sarebbe stato un bel segnale. Per tutto il nostro mondo, ci avrebbe regalato un po’ di futuro e sarebbe stato meno umiliante.

Tornando al vostro ultimo album, avete scelto di non pubblicare sulle piattaforme streaming per i primi 3 mesi, incentivando l’acquisto dei dischi, vinili o CD. Le piattaforme hanno ucciso la musica?

Anche, sì… ma tutto il web è una grande truffa, ci hanno preso per il naso con una promessa non mantenuta di libertà, infatti ci sentiamo fintamente liberi qui sopra, ma lo siamo altrove, non certo nella prigione del web, il tempio della solitudine e del tempo buttato via. Basta fare una ricerca per capirlo, basta vedere quali sono i siti che appaiono per primi quando cerchi un prodotto, oppure, facciamoci caso, non abbiamo più nessuna possibilità di eliminare dalla nostra ricerca siti non graditi (un tempo, ad esempio, esisteva), poche possibilità di ordinare come meglio credi i risultati etc etc. Ci dovrebbero dare uno stipendio per tutto il lavoro che facciamo qui sopra, per tutte le pubblicità che subiamo, per tutti gli algoritmi e le violazioni della privacy – acconsento, sì, accetto, sì – che invisibili come acari infestano il nostro quotidiano e a differenza dei cari acari (forse sono il primo al mondo a definire “cari” gli acari!) ci condizionano, pesantemente, volenti o nolenti. La nostra scelta di non pubblicare in streaming per tre mesi è solo una piccola provocazione, però abbiamo scoperto che siamo tra i primi a fare una cosa di questo genere, perché molti nostri colleghi preferiscono esserci, cedono al ricatto della finta visibilità, si tratta scelta fatta sia per tutelare i nostri coproduttori, sia per provare a dire no, multinazionale, non mi piace che ti appropri della mia musica riempiendola di pubblicità, senza chiedere il permesso, senza dividere gli utili. Questo atto della nostra rivoluzione, sarà solo un battito di ciglia, ma visto quanto e quanti si stanno lamentando per questa scelta controcorrente, sta generando un bel colpo di vento!

I social hanno peggiorato l’essere umano, hanno tirato fuori la parte peggiore, hanno enfatizzato, i nostri limiti e le nostre miserie umane?

In parte ti ho già risposto prima, i social sono il tempio della solitudine e del tempo buttato via, noi Yoyo li usiamo per lavoro e per comunicazione, li utilizziamo anche per ragioni amicali (ed è piacevolissimo, ci mancherebbe ancora), ma facciamo molta attenzione, non vogliamo che ci mangino la faccia, non vogliamo certo illuderci per qualche like o qualche parteciperò, quello che ci interessa e che ci scalda il cuore è là fuori, ce lo riprenderemo, con gli interessi, quando torneranno i concerti, quando ritroveremo il nostro pubblico, quando ci potremo abbracciare e sorridere – non solo con gli occhi -, quando ci potremo misurare con gli occhi ed emozionare, come direbbe Franco Battiato, con tutti i sensi in festa! Poi un discorso a parte meritano quelli che usano i social per generare odio o diffondere fake per destabilizzare o tirare la volata a qualche razzista o fascista, questa gente la dobbiamo stanare, sbugiardare e ridicolizzare. Ripulire il web da questo schifo, è doveroso. Poi ci vorrebbero delle leggi per tutelarci per davvero dalle insidie di chi gestisce questa grande discarica dei social e fa enormi profitti rubandoci il tempo e gli occhi – tra l’altro, probabilmente, senza pagare le tasse dovute -.

Alessandra Paparelli