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ONE BLOOD FAMILY – Intervista a uno dei fondatori del progetto Gabriele Concas

ONE BLOOD FAMILY – Intervista a uno dei fondatori del progetto Gabriele Concas

“Sette giovani richiedenti asilo, provenienti da diversi paesi dell’Africa, e sette musicisti torinesi per formare un ensemble multietnico che supera diversità, barriere linguistiche e pregiudizi”. Con questa frase si apre il comunicato stampa che accompagna l’uscita del progetto One Blood Family che si forma a Torino nel 2017. Sono musicisti non professionisti aiutato dal DJ, produttori e musicisti professionisti. Ne ho parlato con uno degli ideatori Gabriele Concas e di seguito l’intervista.

Ciao e benvenuto su Tuttorock. Come nasce il progetto One Blood Family?
Questo progetto nasce da un’idea di Spazio Rubedo, Sweetlife Society e Coperativa sociale Atypica e l’intento iniziale era quello di creare un laboratorio musicale, rivolto a ragazzi richiedenti asilo presso gli spazi di Villa 5 di Collegno. Durante i primi incontri con i ragazzi abbiamo però capito che le loro necessità erano diverse. Avevano bisogno di esprimersi, di dire la loro e di non soffermarsi solamente all’aspetto ludico di ciò che gli stavamo proponendo fino a quel momento.

La scelta del nome del progetto ha un significato particolare e perché la sua scelta.
La scelta del nome è totalmente dei ragazzi! Hanno deciso che One Blood Family fosse il nome che li rispecchiasse perché alla fine il colore del sangue ci rende uguali.

Per quanto riguarda i testi? Il loro significato?
Le canzoni le scrivono loro. Parte sempre tutto da una loro idea, da un testo “pilota” di qualcosa che vogliono raccontare e i significati sono molteplici: dalla rabbia all’amore, la speranza, il viaggio…
Noi ci mettiamo “il mestiere” cercando di ordinare il loro flusso e metterlo in musica.

“Life Can Change” è un brano forte sia nel sound che nel significato, parla del viaggio e dei sogni dei ragazzi coinvolti nel progetto.
Beh sì, questo brano parla da solo ed è tra quelli a cui siamo più legati. Forse proprio per la situazione che abbiamo appena passato/stiamo ancora vivendo: la vita può davvero cambiare in ogni momento. In meglio, per chi arriva da paesi in guerra attraversando gli orrori della Libia, di cui i ragazzi poco per volta ci hanno raccontato episodi orribili. In peggio, per chi come noi è abituato bene. Ma non vogliamo caricare il titolo di significati a tutti i costi negativi o positivi, gli aspetti spesso convivono.

In grandi linee i ragazzi sono rifugiati politici, perché hanno scelto il linguaggio della musica, che è universale, per esporre le loro idee e le loro difficoltà?
Crediamo che non esista un linguaggio più semplice ed efficace per poterti esprimere e arrivare alle persone in tutto il mondo. Sono ragazzi giovani, per lo più ventenni, alcuni magari con un vissuto così denso da poter dimostrare almeno 40 o 50 anni. Hanno voglia di divertirsi, svagarsi e magari sognano di farlo suonando e cantando in giro per il mondo e proprio grazie alla musica potrebbero farlo in maniera libera e “normale”.

C’è stato un muro al loro arrivo in Italia o sono stati accolti bene?
Le storie ovviamente non vanno tutte allo stesso modo. In linea di massima non ci sono stati dei veri e propri muri, a parte quello di incontrare una lingua e una cultura diversa, ma d’altronde quando intraprendi un viaggio del genere lo metti in conto. Col tempo i ragazzi si sono integrati bene, hanno imparato la lingua, hanno amici, lavorano e grazie ai concerti incontrano nuove persone e si sentono voluti bene dal pubblico.

L’Italia non sempre accoglie a braccia aperte chi emigra per sogni e una vita migliore, cosa ne pensi di questo?
Penso che questo non sia solo un problema italiano, basta guardarsi un po’ intorno. Riusciamo sempre a trovare un modo per dividerci l’uno con l’altro. Quindi vorrei davvero risponderti che è solo un problema italiano, perché sarebbe confortante sapere che basterebbe andare via da qui per trovare amore, rispetto, solidarietà ma non è così. I ragazzi stessi nei loro paesi d’origine hanno vissuto situazioni simili. Basta pensare alla Libia. Eppure i nostri ideali occidentali dovrebbero essere altri, ma evidentemente ci sopravvalutiamo.

Le reazioni del pubblico durante le esibizioni?
Fantastiche! I feedback del pubblico sono sempre entusiasti e i ragazzi sembrano davvero nati per stare sul palco. Infatti non vediamo l’ora di ritornare a saltare e a sudare sui palchi, nei club o ovunque sia, perché ne sentiamo e ne sentono davvero l’astinenza, più che la mancanza.

Musicalmente c’è una varietà di stili, ma con una parte principale di musica world, una scelta voluta, dovuta o casuale?
Direi che non è stata davvero una scelta. Come ho già detto si collabora insieme ad ogni singolo brano che, per un motivo o per un altro, prende la direzione o stile che lo veste meglio. Siamo in tanti e abbiamo ascolti ed influenze musicali e culturali diverse e sarebbe difficile fare diversamente.

E’ in preparazione un nuovo album?
Abbiamo parecchio materiale e sicuramente ce ne sarebbe per almeno altri due. Non abbiamo fretta di tirar fuori cose, per adesso lavoriamo con ciò che abbiamo e vediamo dove ci porta. Step by step, day by day.

Il messaggio di questo progetto e album, riuscirà ad abbattere barriere, muri, egoismi, ignoranze e intolleranze varie e far capire che viviamo tutti nello stesso Mondo e l’integrazione è importante per una vita più pacifica?
Siamo una band, facciamo musica e ci divertiamo a farla e a suonarla in giro. Come progetto nasciamo con lo scopo di dare a questi ragazzi delle occasioni di gioia e di incontro e magari essere di ispirazione per altre realtà simili. Se poi nel nostro piccolo riusciamo ad accendere una miccia in chi ci ascolta allora la missione è compiuta.

Come hai vissuto con la band il covid con questo progetto molto impegnativo?
L’abbiamo vissuto come tutti. Non è stato facile né tantomeno piacevole ma per fortuna coi vari whatsapp, zoom o skype siamo riusciti ad accorciare le distanze e a vederci in faccia più o meno costantemente.

Chiudi l’intervista come volete, un messaggio per guardare verso orizzonti più aperti e ascoltare One Blood Family.
Quello che noi vediamo lontano e distante all’orizzonte come un punto d’arrivo, per qualcun altro è stato o sarà il punto di partenza. Perciò abituiamoci a pensare che le cose sono diverse e cambiano a seconda del punto di vista. E se vi interessa approfondire un po’ di più le storie di One Blood Family ovvero Ceedy, Ibraima, Goodness, Adama, Keba e Sana, andatevi ad ascoltare il disco e capirete che non è un progetto di “immigrati” ma qualcosina in più.

 FABIO LOFFREDO

Band:
Seedy Badjie: Voce (Gambia)
Adama Ndow: Voce (Gambia)
Goodness Egwu: Voce (Nigeria)
Ebraima Saidy: Voce (Gambia)
Sana Bayo: Djembé (Gambia)
Keba Ndiaje: Kenkeni (Senegal)
Gilbert Dar: Beatbox
Manuel Volpe: Basso, Farfisa e synth bass
Simone Pozzi: Batteria e percussioni
Gabriele Concas: Electronics
Matteo Marini: Electronics
Diego Grassedonio: Sax baritono e sax tenore
Davide Pignata: Sax alto
Giorgio Benfatti: Tromba

https://www.facebook.com/onebloodfamilytorino/