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Moonage Daydream e l’essenza di David Bowie

Moonage Daydream e l’essenza di David Bowie

Si chiama Moonage Daydream, prendendo in prestito il titolo della traccia numero 3 di un disco iconico, ed è il docu-film su David Bowie realizzato dal filmaker americano Brett Morgen. Opera per la quale ha avuto il benestare della famiglia dell’artista britannico per poter utilizzare la sua musica e per attingere a piene mani dagli archivi video e fotografici.

Martedì mi sono recato al cinema per vederne la proiezione con tanta curiosità, e un pizzico di apprensione, perché quando c’è di mezzo Bowie, almeno personalmente, si ha a che fare con profondi sentimenti.

Possiamo parlare prima della forma che del contenuto, ma c’è da dire che le due cose sono quasi inscindibili. Perchè l’estetica folgorante e la strepitosa colonna sonora non sono solo il veicolo del messaggio, ma sono esse stesse parte del messaggio. Brett Morgen fin da subito afferra la nostra testa e la immerge prepotentemente nell’universo caleidoscopico da lui creato e messo al servizio del flusso di coscienza di Bowie. Le immagini non sono mai lì per caso. A volte hanno particolari finalità evocative, altre di “ordinaria testimonianza”, altre volte ancora sono lì per pura fascinazione.

Personalmente le sequenze in cui si vede David salire e scendere su una scala mobile illuminato da luci al neon, e quella in cui è seduto su una panchina, nella notte di un aeroporto deserto, con dietro una serie di alberi di Natale quasi spogli di addobbi, mi hanno catturato in maniera pressoché mistica.

E di immagini che inspiegabilmente ci colpiscono, scatenandoci emozioni ne parlerà proprio lo stesso Bowie, ma ci arriviamo dopo.

Riguardo la colonna sonora, faccio veramente fatica a immaginare come sarebbe potuta essere migliore di così. Tra remix, versioni live, particolari edit ,e rivisitazioni sinfoniche si toccano punte splendore impareggiabili, e tassi di emotività non indifferenti.

Fulminante il remix di Hallo Spaceboy a inizio film (impossibile restare fermi!), e struggentemente gioiosa la versione di Word On a Wing. Brano che nasce come sorta di preghiera a un qualche dio, e che all’interno del racconto viene utilizzato per celebrare l’incontro con Iman, con quei versi “In this age of grand illusion you walked into my life, out of my dreams che risultano particolarmente azzeccati al contesto.

E poi All The Young Dudes e Rock’n’Roll With Me da cantare come inni, Sound And Vision, Heroes, Space Oddity, Ashes To Ashes, Let’s Dance, li potrei citare tutti ma mi fermo.

Ho ringraziato la mia solita scelta di posizionarmi nell’ultima fila della sala, in modo da poter lasciarmi andare alla musica, in preda ad un’estasi bowiana, senza disturbare nessuno.

Musica ed immagini, oltre che farne parte, rappresentano la struttura e il ritmo della narrazione.

Narrazione nel quale si dispiega a noi l’essenza di Bowie. La sua vita, i suoi pensieri, come si vede e come viene visto, la sua evoluzione artistica ed umana.

Ci si potrebbe soffermare su moltissime cose ma voglio limitarmi a tre aspetti che mi hanno colpito maggiormente.

LO SPAZIO: “Dove passi la maggior parte del tempo?” chiede un intervistatore, e Bowie, senza far mancare la sua caratteristica ironia, risponde elencando circa 6 località sparse per il mondo nel quale aveva vissuto nell’ultimo anno. Riguardo il concetto di spazio emerge un modo di viverlo assolutamente particolare. Già in giovanissima età smania di evadere da una sonnacchiosa periferia, a suo modo di vedere, come Brixton. Riuscendo a farlo inizialmente solo in senso metaforico, tramite i dischi e i libri (non a caso resta folgorato da On The Road  dI Jack Kerouac) che gli passa il fratello.

Successivamente i luoghi in cui decide di andare a vivere rappresentano per lui delle sfide attraverso le quali “mettersi in situazioni pericolose”. L’esempio è quello di Los Angeles, città che dice di detestare e nella quale sceglie di andare a vivere. Che bello non aver mai sentito l’odioso termine “comfort zone” mentre scorreva sullo schermo tutto ciò, lasciatemelo dire.

Il suo rapporto con l’America (ma credo che questa cosa si possa declinare anche alle altre tappe importanti della sua carriera) è ben rappresentato dalla metafora della mosca nella busta di latte. Egli si  vede, al pari della mosca, come un corpo estraneo in America, dalla quale però sta cercando di assorbire il più possibile. Mosso da una curiosità pari a quella di Ulisse. Discorso per certi versi simile per Berlino, se non fosse che lì appare estremamente esplicita la sua urgenza di acquisire un nuovo linguaggio musicale. Berlino Ovest, per la precisione, gli sembra il posto più adatto per trovare quello che sta cercando, o meglio, per crearlo. Altro giro, altra corsa con l’Oriente dal quale si sente attratto e addirittura intimorito dalla prospettiva di innamorarsi troppo dello stile di vita giapponese, rischiando di perdere la sua caratteristica di “non spazialità”. Infatti fino alla soglia dei 40 anni il Bowie che vediamo ci racconta di non aver mai acquistato una casa e di spostarsi continuamente di affitto in affitto, per non legarsi troppo. Questa visione cambierà quando cambierà anche la sua concezione del tempo.

L’UOMO/L’ARTISTA:  Dirà David di non averci visto in Ziggy Stardust nulla di più di quello che era, ossia una rockstar aliena, mentre tanti altri gli avevano affibbiato simbolismi, significanti e significati, che lui non aveva neanche minimamente immaginato.

L’uomo, l’artista, le sue maschere e i mondi che si porta dentro è certamente il “core” del film, nonché di Bowie stesso. 

Assistiamo ad una sequela di interlocutori che si approcciano a lui chiedendo chi sia realmente, se ci fa o ci è, provando a psicanalizzarlo e a cercare messaggi subliminali dietro ai suoi personaggi. A tutto ciò in risposta sopraggiungono sempre naturalezza, semplicità ed ironia da parte dell’artista britannico, che vive il tutto come un modo di esprimersi, e lasciar fluire la sua ispirazione creativa. Alcuni di questi siparietti sono estremamente divertenti, specie quelli in cui gli intervistatori sembrano allibiti dalla sua appariscenza e lo interrogano su una eventuale bisessualità, sulle scarpe da donna e così via. Era la prima metà degli anni ‘70 e ci sta che facessero scalpore determinate cose, soprattutto alle generazioni più datate.

Si sorride molto meno se pensiamo che oggi, 50 anni dopo, ancora ci siano persone che su temi del genere si scandalizzano (e magari si limitassero solo a scandalizzarsi in certi casi).

Tornando all’uomo e all’artista, notiamo che il motore principe è la ricerca.

Ricerca di sé stessi, di capire l’animo e la mente umana, ricerca di comprendere e scoprire linguaggi artistici (musicali e non).

Interessante il quesito della quercia illuminata dal Sole che si pone Bowie, affascinato da come alcune immagini possano scaturire emozioni differenti nell’animo umano a seconda dell’approccio con il quale le si osservi. Il suo interesse per le arti figurative e visive sembra infatti essere rivolto, oltre che al piano tecnico, a quello emotivo che ne scaturisce.

Dal punto di vista della ricerca musicale si potrebbero scrivere poemi, ma ci tengo a soffermarmi sulla metà degli anni ‘80. Parliamo del post Let’s Dance, in cui assistiamo ad un Bowie che viene travolto dal clamoroso successo di un disco che a suo dire contiene “la musica più semplice che abbia mai fatto”. Ecco allora che in lui fioriscono pensieri come la non necessità di essere innovativi, di sperimentare nuovi linguaggi, di come magari ci siano altri artisti che lo facciano meglio di lui, e perchè no quello di vedersi semplicemente come un intrattenitore. Su come addirittura lo stare bene con sé stessi non potesse collimare con una buona scrittura, anzi ne annullasse l’esigenza di farlo

Iniziano a le scorrere le immagini del Glass Spider Tour, che più che un concerto si può definire uno show, e si sente David paragonarsi alla Pepsi (della quale insieme a Tina Turner faceva da testimonial all’epoca) che nonostante avesse quasi 100 anni continuasse ad “andare di moda”. Ecco dunque che Brett Morgen fa un accostamento geniale, insieme alle immagini quasi pacchiane di quegli anni, si inframezzano quelle di Ziggy Stardust che canta Rock’n’Roll Suicide. Con quel grido che squarcia l’aria “Oh no love, you’re not alone!”. Ziggy era stato ragione di vita per tantissime persone, una figura di culto, tra il filosofico e il religioso, capace di esprimere e di provare lo stesso malessere del suo pubblico.

David Bowie non sarebbe mai potuto essere un “semplice intrattenitore”.

Il periodo che va tra il tramonto degli sbrilluccicanti anni ‘80 e i caotici anni ’90 ci mostra un Bowie fare ammenda, e dire a proposito degli anni appena precedenti: “Mi stavo impedendo di essere l’artista che sono”.

E allora si torna alla ricerca e alle scelte audaci, quelle che fin da giovane aveva apprezzato nei dischi e nei libri che gli passava suo fratello. Arriano gli anni ‘90 con capolavori come 1.Outside e Earthling.

IL TEMPO: “I’m dying, you are dying, second by second. All is transient. Does it matter? Do I bother? Yes, I do. Life is fantastic and never ends, it only changes, flesh to stone to flesh, around, around… Let’s keep walking”.

 Questo è parte del recitativo con cui si apre e si chiude la pellicola, la quale essenza tra domanda e risposta si sintetizza.

“Il tempo è uno dei concetti più complessi” dice Bowie, come dargli torto.

Il suo modo di viverlo, fino a un determinato momento, è un continuo carpe diem, egli afferma addirittura di non riuscire ad ipotizzare neanche lontanamente il concetto di futuro.

Vive la sua vita istante per istante, non legandosi a vincoli spaziali e materialistici.

Poi l’incontro con Iman, l’amore, e quel futuro ecco che non sembra più un qualcosa di indeterminato. Si parla perfino di “percorso”. Un percorso nel quale va goduto ogni momento, per far sì che i sogni diventino realtà e non si resti schiacciati da essi.

Let’s keep walking.

 

In conclusione “Moonage Daydream” è il film che si merita David Bowie.

Ho fatto sempre fatica ad ipotizzare un bio-pic su di lui come ne sono stati realizzati tanti, alcuni più riusciti di altri, dedicati a grandi artisti della musica. E questo film mi convince definitivamente che non sia realizzabile un qualcosa di quel genere per il genio britannico.

Il lavoro di Brett Morgen, il suo approccio all’artista, alla sua essenza più profonda, è quasi liturgico ma non per questo timorato. L’idea di “Bowie raccontato da Bowie” è vincente, e questo lasciargli spazio si evince già a partire dalla locandina. Con quel “BOWIE” scritto in alto a caratteri cubitali, e con il titolo del film  scritto in basso, sotto i piedi di Ziggy con caratteri molto più piccoli.

Nei primissimi minuti si vede una ragazza piangere e disperarsi sul retro di un teatro a Londra dicendo: “Non sono riuscita a vederlo! Non sono riuscita a vederlo, se n’è già andato!”.

Ecco, una volta terminata la proiezione, mi sono sentito un pochino come quella ragazza. Nel senso che non aver potuto assistere ad un concerto di un artista così totalizzante, così capace di ispirare e toccare l’animo umano, mi lascia l’amaro in bocca.

Ma la sua arte lo ha reso immortale, in grado di seminare al di là del tempo, e questo film lo dimostra.

di Francesco Vaccaro