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UZEDA – Intervista alla storica band catanese

UZEDA – Intervista alla storica band catanese

Siete una band particolare. Avete fatto grandi cose a cavallo di tre decenni. Tempo, questo, che ha trasformato il nostro Paese. Come avete visto cambiare la scena musicale italiana?
Giovanna Cacciola: “Avendo attraversato i decenni, abbiamo avvertito il fisiologico cambiamento dettato dallo scorrere degli anni, legato alle mutazioni sociali, accentuati dal fatto di vivere in un contesto quale quello siciliano. Il cambiamento più radicale è legato ad esempio al paradosso di avere oggi più spazi dove suonare, ma di suonare meno. Tu parli di “Scena” e noi, vivendo principalmente quella di Catania, possiamo dire di non aver mai riscontrato l’esistenza di una vera e propria “Scena” che avesse unità di intenti musicali. La cosa non è necessariamente negativa e forse è da attribuire alla natura del siciliano e principalmente del catanese. C’è un’estrema difficoltà ad associarsi, a fare delle cose insieme, a fidarsi l’uno dell’altro, e quindi anche ad affidarsi ad un’unica voce, ad un’unica corrente o ad una scena che coinvolga tutti.”

Siete una delle poche band italiane ad avere avuto un contratto diretto con un’etichetta storica  dell’Indie-Rock americano. Come si è sviluppato questo rapporto e che rapporti avete con la Touch & Go oggi? Che effetti concreti ha prodotto in termini di attività della band?
Giovanna Cacciola: “Oggi, come sai, “Touch & Go”, non si occupa più di produzione. A causa degli elevati costi di gestione rispetto alle ormai esigue vendite, si occupa esclusivamente di quanto è stato prodotto in passato. Noi continuiamo ad avere un rapporto bellissimo con la label. La lontananza geografica non ha inciso per nulla. Ha inciso invece il fatto di non poterci occupare esclusivamente di musica, cosa che ci ha molto limitato nel fare tour, andare in giro, tornare in America quanto avremmo voluto. Certo, a livello di immagine, ha comunque avuto un ruolo. Presentarsi con un’etichetta come “Touch & Go”, non dovrebbe, ma fa, fa molto e forse, ancora di più, fanno e hanno fatto, le volontà in comune e, in qualche modo, le affinità elettive con l’etichetta stessa.”

Ora come siete messi? Chi vi produce? Chi vi distribuisce?
Giovanna Cacciola: “Non ci stiamo pensando. Ci penseremo nel momento in cui avremo un disco pronto. Al momento siamo impegnati nella composizione di alcuni brani che comporranno presto un disco che abbiamo quasi pronto. Oggi non è un gran problema trovare il modo di fare uscire un disco. Tutto è molto più improntato sulla musica dal vivo. La stessa vendita la si fa ai concerti. In questo senso, essendo l’Italia stretta e lunga, non si può pensare di fare grandi cose e tutto, ahinoi, si riduce ad un giro piuttosto consolidato di situazioni in cui suonare e fare promozione. Chiaramente c’è l’Europa, l’America ed il resto del Mondo, ma non è mai facile fare certe cose. Abbiamo suonato fuori. In Francia, in Inghilterra, ma non è mai facile.”

Che tipo di show è il vostro? Dove suonate in genere?
Raffaele Gulisano: “E’ una testimonianza di spontaneità assoluta. Una semplice espressione di ciò che siamo. Poi posso dirti che per scelta non suoniamo spessissimo. In genere lo facciamo in club, club di medie dimensioni dove è facile riuscire a stabilire un contatto diretto con le persone.

Dismettendo per un secondo i panni del reporter, da fan, noto sempre la vostra roboante assenza nelle grandi rassegne italiane. Reputando che avete uno dei live-act, a tutt’oggi, più energici e vitali che ci siano in Italia, come spieghi questo vuoto?
Raffaele Gulisano: “Bella domanda. Non me lo spiego. Forse semplicemente non siamo bravi nel cercarci situazioni del genere, dove peraltro non è semplice suonare proprio dal punto di vista logistico. Cambi palco veloci ed approssimativi non sempre permettono agli artisti di suonare al meglio.”
 
Dopo tanto tempo, cosa vi spinge ancora a suonare? Dove trovate gli stimoli per farlo?
Raffaele Gulisano: “L’amore per una cosa ti dà l’energia. L’amore per ciò che abbiamo fatto, per le cose che ci hanno ispirato e per quelle che ci piacerebbe ancora fare. Penso al disco che abbiamo attualmente in lavorazione. Tu da musicista, puoi capirmi… Siamo anima e corpo concentrati lì. Non siamo velocissimi in fase di pubblicazione. Abbiamo sempre pubblicato quando pensavamo di avere il materiale giusto per farlo. Ed è così che siamo abituati a fare ancora oggi ed entreremo in studio solo quando penseremo che tutto sia come deve essere, proprio per quello che dicevo all’inizio: amore per quello che si fa!”

C’è ancora spazio per la meraviglia quando salite su un palco?
Raffaele Gulisano: “Altra bella domanda. Assolutamente si. Sia in senso positivo che in senso negativo. Ogni situazione è sempre diversa. Sia per le persone che incontri, sia perché tu sei ogni volta diverso. Mi piace proprio questa domanda, perché mi fa pensare a quanto sia ancora molto importante tutto questo!”

All’inizio della vostra attività, siete stati una band New Wave. In seguito vi siete accostati ad altre grandi band, su tutte gli Shellac ed a suoni sempre più scevri di compromessi. Ora? Pensi si possano sempre evolvere gli Uzeda?
Raffaele Gulisano: “No, il nostro incontro con Albini non ha modificato il nostro approccio alla musica.  Tanto più che non mi appartiene questo discorso della classificazione della musica per generi. Non credo all’inizio si fosse New Wave o altro. Credo di più che sia stato un naturale processo di evoluzione da parte della band e dei suoi componenti rispetto a ciò che già si aveva dentro.”

Un’ idea folle: ma se vi chiedessero di partecipare a Sanremo (che, in definitiva, dovrebbe essere il Festival della musica italiana, quindi non necessariamente di quella brutta!), lo fareste? Con che tipo di brano?
Davide Oliveri: “Non sei la prima persona che ci fa questa domanda. Nei momenti di massimo successo della band era una bizzarria che ci veniva chiesta spesso. Chiaramente c’è un’incompatibilità di base, ossia quella di natura linguistica. Come sai, noi scriviamo in inglese e non credo faremo mai una canzone in italiano.

E’ mia personale opinione che le buone band si fondino su un drumming solido. Quale è stata la tua formazione?
Davide Oliveri: “Mi sono lasciato affascinare da figure molto diverse. All’inizio ho ascoltato i dischi in cui suonava Max Roach. Poi certamente importanti sono stati Bill Bruford (King Crimson) e Stewart Copeland (Police). Una volta a Berlino suonammo con una band, i Bastro, in cui militava John McEntire (drummmer dei Tortoise). Devo dire che fu una meravigliosa scoperta, così come in seguito tutta la scena di Chicago. E’ un fatto di affinità elettive, non so. Mi rivedevo molto in quel tipo di drumming, in fondo simile al mio. Molti batteristi fanno fatica a suonare tempi dispari. Tempi che invece ho, per istinto, da sempre usato in modo naturale. Tempi come il 13/8 che non uso per la voglia di stupire, ma che lavorando per contrasti, mi aiutano a sottolineare certe tensioni dinamiche all’interno dei nostri pezzi. Poi ci sono stati i sei dischi con Gianna Nannini, con cui sai che Raffaele ed io collaboriamo in veste di autori. I lavori con lei mi hanno dato la possibilità di sperimentare ulteriormente ed apprendere nuove tecniche di composizione che mi hanno fatto maturare ulteriormente come musicista e come persona. Una crescita che ci ha permesso di arrivare a comporre addirittura una colonna sonora per un lungometraggio d’animazione (“Momo e la conquista del tempo”, regia di Enzo D’Alò).”

Facendo un bilancio veloce e semplicistico mi piacerebbe chiedervi, l’attività della band, cosa ha tolto e cosa vi ha dato in relazione alle vostre vite?
Davide Oliveri: “Non credo che possiamo dire che ci abbia tolto nulla. Posso dire che la scelta di suonare negli Uzeda è stata una scelta coraggiosa e “costosissima”. Abbiamo fatto grandi sacrifici noi, abbiamo dovuto farne fare alle nostre famiglie, ma con un gran ritorno artistico, umano, di conoscenza delle persone in giro per il mondo. Sempre in punta di piedi e con rispetto per la musica che facevamo, essendo noi, tra i pochissimi esempi di band italiane che non hanno mai ceduto a lusinghe di tipo commerciale. In questo senso mi sento “appostissimo” con la mia coscienza e quindi ricco di quanto queste scelte ci hanno portato!”

Oggi, è mia convinzione, che la musica indipendente in Italia sia fatta per lo più da musicisti che non vanno a vedere altri musicisti e che spesso neppure hanno un vero pubblico. Secondo voi, se ne esce? E, se si, come?
Agostino Tilotta: “ Certamente questa cosa ha un fondo di verità, ma credo che questo sia dovuto a quello che, tra virgolette, possiamo definire Salto Generazionale. In Italia, da un certo punto in poi, non c’è stata più quella continuità necessaria per far crescere una vera scena. Questo perché una buona parte di quelli che “frequentavano” l’underground, sono passati, vuoi per esigenze economiche, vuoi per motivi lavorativi (non entro e non voglio entrare nelle scelte degli altri) ad un versante che potremmo definire “Mainstream”(Anche se poi bisognerebbe capire bene, perché ho l’impressione che se andassimo a chiedere meglio cosa secondo loro identifichi questo termine, credo che in pochi sappiano cosa sia!). Per cui c’è una certa confusione già nel definire la “Musica Indipendente” che il più delle volte “Indipendente” non è! Tante persone che hanno iniziato partendo dai Centri Sociali, ad esempio, hanno poi sentito l’esigenza di firmare con Major e “lavorare” con la musica, come un tempo si poteva lavorare alle Poste, visto che oggi non è neppure più semplice quello. Un approccio del genere lo trovo comunque giusto ed onesto, ma certo limita la libertà di espressione. Parlando in termini artistici era proprio ciò che, forse, in passato determinava una scena. Questo ha certo determinato uno scollamento profondo tra una generazione nemmeno troppo lontana in termini temporali, con le nuove.

Da un punto di vista strettamente musicale, l’avvento dell’Hip-Hop che da controcultura si è affermato come fenomeno di massa, sta fagocitando altro tipo di espressioni fra cui il rock. Come vedete la cosa?
Agostino Tilotta: “L’ Hip Hop, non nasce ieri, e forse neppure l’altro ieri. In origine nasceva da profonde esigenze socio-politiche. Era la naturale tendenza dell’uomo di esprimersi liberamente. Nasce dall’esigenza di chi, abitando in quartieri ghetto, si spostava da una stazione all’altra della metropolitana con il proprio stereo e cantava su certo tipo di basi, immaginando che un giorno potessero diventare popolari quanto i graffiti che lasciava nel tragitto. Poi le multinazionali vi hanno individuato un potenziale e ne hanno fatto uno stilema estetico che hanno riversato su persone che magari non sanno nulla della strada in senso stretto. In questo senso la “Macchina”, potrei dire la “Locomotiva” che mastica tutto con le sue grosse ganasce, dovendo investire e recuperare 10, 20, 100 volte l’investimento fatto si è impossessata di questi “luoghi” in cui forte era la spinta della precarietà dell’individuo che a quel punto, diventando “famoso” perdeva qualsiasi connotato culturale per trasformarsi in un “prodotto”.

In fondo è quello che è accaduto con il rock. Penso alle magliette con il logo dei Black Flag o dei Ramones, che oggi in tanti vestono per moda senza conoscere gli stessi artisti che “vestono”…
Agostino Tilotta: “Esattamente. Se ci pensi è quello che è successo con Che Guevara. Te ne vai alla Feltrinelli e compri il poster o la t-shirt di qualcosa che è stato totalmente svuotato del suo significato originario e che più viene mostrato, più, paradossalmente, finisce col non significare più nulla. Come in tutte le cose. Il meccanismo è il medesimo in quella che viene codificata come “Informazione Voluta”. Penso agli sbarchi dei profughi, alle immagini di povera gente che finisce in acqua e muore. Noi come persone di un sud da sempre abituato a vedere gente arrivare un tempo ci saremmo indignati, saremmo “sclerati” nel vedere certe immagini che al contrario, più vengono riproposte più si spersonalizzano e si svuotano del loro significato rendendoci sempre più indifferenti.“

Nel quadro socio-musicale che abbiamo appena tratteggiato, come si collocano artisticamente gli Uzeda? Cosa hanno da dare?
Agostino Tilotta: “Tu ci fai questa domanda, ma personalmente, se fossi io uno specchio in cui guardarsi, girerei io la tua domanda a te…”

Mi piace questo “gioco”, e, forse una risposta, per quanto articolata, ce l’avrei pure. Ma forse, a questo punto, preferisco rimandarla al pubblico che ci legge a mo’ di invito per assistere a quella “Cosa” eccezionale che sono i vostri live oppure per cercare e guardare il film documentario sugli Uzeda che sta per uscire nel 2016. Davvero, grazie di tutto.
 
MASSIMILIANO AMOROSO
Photoset by AZZURRA DE LUCA

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