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METHODICA – Intervista al cantante Massimo Piubelli

METHODICA – Intervista al cantante Massimo Piubelli

Il ritorno dei veronesi Methodica è stato ricordato su queste pagine con la recensione del nuovo album “Hypocricity” (leggi qui la recensione). Ne ho parlato on il cantante Massimo Piubelli, di seguito l’intervista.

Ciao e benvenuto su Tuttorock. Prima di parlare del nuovo album tornereI indietro nel tempo, come, dove, quando e perchè nascono i Methodica?
I Methodica sono nati anni fa a Verona, dal desiderio comune di alcuni ragazzi di fare musica, dalla voglia di esprimersi e di suonare e far sentire ad un pubblico il loro genere musicale preferito, il progressivo metal, che in quegli anni, con i Dream Theater in testa, stava iniziando a fare proseliti a livello internazionale.

Ma quale sono state le reali ispirazioni che vi hanno fatto decidere di formare la band?
La band è nata in primis come cover band dei Dream Theater, al tempo la fonte di ispirazione di tutti gli appassionati di progressive metal. Dopo aver calcato i palchi cittadini e regionali con il repertorio dei Dream Theater, pian piano è nata l’idea di iniziare a scrivere brani originali. E’ stato un passaggio naturale, anche se avvenuto abbastanza lentamente. C’è molta differenza tra suonare le canzoni degli altri, semplici o complesse che siano, e scrivere la propria musica, partendo da zero, da una pagina bianca.

Perché la scelta di esplorare il progressive metal e tutte le sue forme con il vostro sound?
Perché per noi è un genere che, pur rivolgendosi ad un pubblico più di nicchia e selettivo – quindi con meno possibilità di arrivare al pubblico di massa – è quello che più ci ispira e in cui ci riconosciamo come musicisti. Il progressive (metal e non) unisce il virtuosismo tecnico e la fruibilità musicale, ci dà la possibilità di spaziare nella composizione e nella creatività senza porsi limiti. Tutto dipende da quello che la band vuole comunicare con il materiale che compone, da quanto vuole sbizzarrirsi nella scrittura dei brani. Si può passare dal brano standard – come durata o forma stilistica – che racconta un istante, alla suite formata da varie parti musicali e strumentali che narra una storia intera. Noi negli anni siamo passati da un progressive metal più “canonico”, molto debitore dei Dream Theater, ad un prog più moderno, con molta elettronica, con brani più asciutti e immediati, ispirandosi ai nuovi artisti e alle nuove band – Vola, Tesseract, Leprous, Haken – che stanno modernizzando il genere. Abbiamo seguito un percorso che un po’ alla volta si è allontanato dalle lunghe suite strumentali e dai virtuosismi del singolo per concentrarsi sul lavoro di insieme e sull’essenzialità. Noi per primi non ci definiamo virtuosi o ipertecnici, abbiamo sempre puntato più sul risultato finale del collettivo.

Perché la scelta del nome Methodica?
Cercavamo un nome che non fosse prettamente inglese, e che fosse semplice da ricordare e, perché no, anche da pronunciare da chi non mastica l’inglese. La soluzione è arrivata al nostro batterista Marco sfogliando il volume di un’enciclopedia: nel momento in cui ha letto la parola “Methodica” si è reso subito conto che era il nome adatto per la band e per la proposta musicale.

Arriviamo al nuovo album, “Hypocriticy”, come nascono i vari brani?
“Hypocricity” è nato in un momento complicato, in piena pandemia: eravamo tutti chiusi in casa, zero possibilità di trovarci in studio per buttare giù nuove idee o lavorare su riff di chitarra o giri di accordi. Ci scambiamo le idee musicali via mail, Max scriveva i testi e le linee vocali, registrava e mandava il tutto, e così via. Un lavoro durato diversi mesi, nei quali ci sono stati anche cambiamenti nella line-up, che hanno complicato ulteriormente le cose. Alla fine, però, siamo riusciti a chiudere il disco e a pubblicarlo, e per noi è stata una vittoria sotto tutti i punti di vista, la dimostrazione che i Methodica ci sono ancora, e sono ancora in formissima.

E’ un concept album?
Sì, è un concept album ispirato a “La Nausea” di Jean Paul Sartre, un libro molto amato da Max, autore di tutti i testi. E’ la storia di un uomo che vive in questa città, che lui non chiama per nome, ma semplicemente Hypocricity. Il protagonista della storia considera gli abitanti di questa città delle persone che vivono in una finzione più grande di loro, dove tutti credono di essere felici, o fingono di esserlo, senza vedere – o voler vedere – tutta la vacuità delle loro esistenze, divise tra perbenismo e apparenza.

Il significato del titolo e dei testi?
Il titolo “Hypocricity” nasce dalla fusione tra hypocrisy e city, e riassume in una parola tutta la storia narrata nell’album. I testi raccontano questo personaggio senza nome che, critico e lucidamente cinico nei confronti della città in cui vive (sentimenti espressi in “You’ve Changed” e “Detour”), si divide tra ricordi di amici venuti a mancare (“Ephemeral”) e vecchi amori ormai spenti (“Mechanical Flowers”). Questi elementi sono presenti anche nel libro “La Nausea”. Poi la storia del disco prende un’altra piega e si stacca completamente dal libro: il protagonista, dopo aver detto addio al suo vecchio amore ed essere stato con una prostituta (in “Sanctuary”) comincia a perdere il lume della ragione (The Running Glow”): inizia ad avere visioni e sentire voci inesistenti, che lo incitano a commettere un omicidio.Vagando per la città, entra in un teatro e uccide il trombettista della jazz band che sta suonando in quel momento (“Death of a Jazz Trumpeter”); questa azione lo fa diventare il capro espiatorio di tutta la città, l’elemento di disturbo nella finta perfezione e ipocrisia in cui le altre persone sono immerse. Sentendosi addosso il giudizio e il biasimo di tutti quelli che lo circondano e rinfacciando loro di averlo ucciso ogni giorno per anni (in “Not One”), alla fine decide di abbandonare quel luogo senza speranza, e salpare con una barca verso altre terre, dove non ci sono “né grandine né corvi” (“Crows and Hail”). Questo ultimo avvenimento può essere interpretato dall’ascoltatore in maniera letterale o in maniera metaforica, con un suicidio del protagonista. Ci piace l’idea di un finale interpretabile a piacimento.

Emerge la parola ipocrisia, cosa è per voi l’ipocrisia e chi è ipocrita oggi?
Beh, l’ipocrisia è quello che generalmente conosciamo: convincerci che tutto vada bene, riempirci la casa di oggetti e beni inutili pensando sia fonte di felicità, assumere un comportamento integerrimo agli occhi degli altri e poi agire in modo opposto, e tutto quello che generalmente associamo al concetto di ipocrisia. Però si può essere ipocriti in tanti modi diversi, anche mancando di rispetto a chi ci è vicino, alle persone con cui ci relazioniamo.

C’è qualche attinenza a ciò che succede oggi nel mondo?
Sì, assolutamente, le sensazioni che prova il protagonista del disco (e anche del libro) sono sentimenti che tutti noi possiamo provare nei confronti di ciò che ci circonda: ogni giorno veniamo sommersi da input di ogni tipo, ci viene detto come dobbiamo comportarci, vestire, mangiare, ma non ci viene mai detto di essere noi stessi, di essere autentici. Essere autentici è un privilegio che pochi possono permettersi, è più facile indossare delle maschere che ci rendano socialmente accettabili. Ormai le indossiamo così spesso che forse non ce ne accorgiamo più. L’arte in questo senso può renderci autentici, ci permette di esprimerci per quello che siamo. C’è un gran bisogno di arte e di bellezza.

Tornando alla musica, quali sono le differenze se paragonate ai vostri album precedenti?

Sicuramente la prima cosa che balza agli occhi è la struttura dei brani: sono molto più immediati ed asciutti rispetto al passato, dalla durata contenuta e completamente privi di suite o parti strumentali – non a caso è il nostro album più breve in termini di minutaggio. Il lato elettronico-industrial è ancora più accentuato e presente, alla pari dei riff di chitarra o le ritmiche quadrate di basso e batteria. Mentre negli album precedenti aveva una funzione di contorno e abbellimento, ora è proprio funzionale alla scrittura e arrangiamento dei brani. Al contrario, le tastiere non sono più così preponderanti – complice il fatto che non abbiamo più un tastierista ufficiale nel combo – ma nonostante abbiano un ruolo più defilato, sono comunque un elemento che caratterizza ed arricchisce la nostra proposta: non solo un semplice tappeto sonoro, ma un elemento che rende il tutto più arioso e atmosferico, una brezza colorata che fluttua al di sopra delle chitarre granitiche.

Mi sembra che c’è anche qualche influenza di alternative metal nel nuovo album o sbaglio?
Certamente, e questo è dovuto ai nostri ascolti recenti, da Leprous a Vola, da Tesseract a Northlane, cerchiamo di restare sempre aggiornati sulle nuove tendenze musicali, in modo da dare al nostro sound un taglio il più possibile internazionale. Abbiamo molti ascoltatori non italiani che ci seguono e ci apprezzano, che ci hanno conosciuto quando eravamo band di supporto a Queensryche e Fates Warning nei loro tour europei, e loro per primi ci hanno sempre detto che non si aspettavano da una band italiana un sound così poco italiano. Lo consideriamo un grande complimento – non per rinnegare le nostre radici italiche, ovviamente, ma perché ci fa capire che stiamo lavorando bene sul nostro stile.

Il significato del disegno di copertina?
Rappresenta la storia narrata nel disco, con questa città che sembra quasi uscire dalla testa del protagonista, come un’ossessione sempre più grande che può solo esplodere distruggendo tutto. Oppure può essere letta anche come la città che si “schianta” metaforicamente sul protagonista: cambia la dinamica, ma il risultato è lo stesso. Una curiosità sulla realizzazione: la persona in copertina è il nostro ex tastierista, Marco Baschera, che – pur non essendo più nella band – ha subito accettato la nostra richiesta di dare il suo volto al protagonista della storia. La nostra separazione è stata solo artistica, ma siamo ancora molto amici.

Le vostre influenze musicali?
Sono tantissime e molto varie, oltre alle band progressive citate in precedenza, i nostri ascolti spaziano dal rock di U2, Muse o Nine Inch Nails, al progressive più classico di Genesis e Marillion, alla musica pop-rock anni 80 – e qui i nomi sono tantissimi per citarli tutti – alle colonne sonore. Questa varietà di ascolti ha sicuramente influito sulla scrittura dei nostri pezzi, da sempre: le melodie vocali di Max, per dire, hanno un gusto molto eighties che contrasta moltissimo con il sound della band, eppure le due cose assieme funzionano. Questo “scontro” di stili ci è sempre piaciuto molto, lo consideriamo una caratteristica dei Methodica.

Progetti futuri e date live?
Stiamo attualmente lavorando a nuovi brani, che stanno un po’ alla volta prendendo forma. Non sappiamo ancora dove ci porteranno, se ad un nuovo album o a singole release da pubblicare man mano, non ci poniamo limiti in questo senso, lavoriamo molto liberamente. Anche sulla scrittura dei brani ci piace non mettere paletti di nessun tipo, è molto stimolante vedere dove un brano ti porta, si possono trovare soluzioni impensate. Sul lato live, stiamo lavorando con la nostra agenzia K2 Music Management per organizzare nuovi concerti per il nuovo anno; è già assicurata la nostra partecipazione ad Isola Rock 2025 come headliner della prima serata, 8 maggio. I nostri concerti comunque sono tutti segnalati sul nostro sito methodicaofficial.com, che teniamo costantemente aggiornato.

Una mini recensione dei vostri album e le varie differenze.
Sicuramente i nostri album sono molto rappresentativi della nostra crescita come musicisti, come scrittura ed arrangiamento dei brani, tanto che le prime produzioni sono diversissime dalle più recenti, quasi facciamo fatica a riconoscerci. Il primo album “Searching For Reflections” risente un po’ della classica “ingenuità” di cui soffrono spesso le opere prime: molte idee interessanti forse non tutte ben a fuoco. L’influenza dei Dream Theater si sente molto, i brani hanno strutture complesse e molte parti strumentali, ma il disco ha sicuramente una spontaneità che lo rende piacevole all’ascolto. Con il secondo lavoro “The Silence of Wisdom” abbiamo ampliato la gamma dei colori e dei suoni, con parti orchestrali e i primi campionamenti elettronici; si passa da brani nervosi e diretti come “Destruction of Idols” a ballate più crepuscolari come “Only Blue”, fino a “The Lord of Empty Spaces” che con i suoi 10 minuti rappresenta la summa dello stile Methodica in quel momento storico. Il successivo “Clockworks” è un album molto scuro come la sua copertina, i suoni si fanno più aggressivi, le chitarre molto più robuste, le atmosfere claustrofobiche e industrial e i testi molto criptici e pieni di metafore fanno il resto. Anche le ballad incluse nella tracklist (“1994” e “Wreckage”) sono brani inquieti e molto dark. Il quarto disco “Hypocricity”, uscito nel maggio 2024, è il nostro primo concept e, al contrario dei lavori precedenti, ha un suono molto compatto dall’inizio alla fine: i brani si susseguono senza sosta, come una corsa precipitosa verso l’inevitabile. La componente elettronica degli arrangiamenti ha la stessa importanza di chitarre e sezione ritmica, rendendo il lavoro decisamente moderno e fresco. Anticipato da tre singoli e relativi video (“Ephemeral”, “Mechanical Flowers” e “The Running Flow”) è sicuramente il nostro lavoro più ambizioso e completo.

Chiudi l’intervista come volete, un messaggio ai nostri lettori per ascoltare la vostra musica e il vostro ultimo album.
Prima di tutto vogliamo ringraziare voi di Tuttorock per averci dato l’opportunità di fare questa intervista, e poi tutti i vostri lettori che magari, dopo aver letto l’intervista, saranno curiosi di ascoltare i nostri lavori. Siamo su tutte le piattaforme musicali, su YouTube, su Bandcamp, quindi se volete conoscere la nostra musica scopriteci, ascoltateci, guardateci, supportateci tramite la nostra pagina Bandcamp (methodica.bandcamp.com).

Vi aspettiamo ai nostri prossimi concerti.

Stay Prog!

FABIO LOFFREDO