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Le chitarre lynchiane degli “A Bad Day”- Intervista ad Egle Sommacal

Le chitarre lynchiane degli “A Bad Day”- Intervista ad Egle Sommacal

“Le chitarre non sono quello che sembrano”, per dirla alla David Lynch.

Questo è ciò che mi è venuto in mente appena ho ascoltato “Flawed”, disco ad opera del duo chiamato “A Bad Day” composto da Egle Sommacal (Detriti, Massimo Volume, Ulan Bator, WuMing 2, Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri) e Sara Ardizzoni (Dagger Moth, Massimo Volume, Cesare Basile e Caminanti). Un po’ perché quelli in copertina pensavo fossero gufi, “un po’ tanto” per i suoni e le atmosfere che sono riusciti a creare con il solo utilizzo di chitarre e pedali, senza ricorrere a computer, campionamenti e cose simili. 

Affascinato da tutto ciò (vi consiglio fortemente l’ascolto dell’album), non ho potuto far altro che contattarli per farmi raccontare qualcosa in più a riguardo.

E quindi ecco di seguito il contenuto della chiacchierata con Egle Sommacal:

Com’è nato questo progetto?

 Io e Sara ci siamo conosciuti nei Massimo Volume quando lei venne a far parte della band per la tournée de “Il nuotatore”. In quel disco avevo realizzato due linee di chitarra e non riuscendo ad eseguirle entrambe dal vivo la prendemmo come chitarrista. Dopo ci siamo continuati a frequentare ed è stata una sua idea quella di realizzare un progetto assieme. Io inizialmente,un po’ scottato da altre esperienze, ero stato titubante, anche perché avevo passato un periodaccio a causa di problemi alla schiena, sono rimasto molti mesi bloccato e non riuscivo a suonare neanche stando seduto. Passato quel periodo, abbiamo iniziato a buttare giù idee e da quel momento in poi il lavoro è avvenuto credo più o meno come qualsiasi delle altre esperienze che ho avuto. Si parte da dei giri, insomma da delle cellule melodiche, armoniche, o anche semplicemente  da dei suoni, e poi ci si inizia a lavorare sopra. Con tanti, tantissimi, scarti all’inizio. Il momento, dal mio punto di vista, sempre più difficile e dispersivo, quando c’è un nuovo progetto, è capire dove andare. Trovare una strada verso la quale concentrarsi. Una volta inquadrata la traiettoria artistica da prendere abbiamo iniziato a lavorare in maniera più razionale in quella direzione 

Ci sono degli ascolti in particolare che vi hanno influenzato nel processo di creazione? Magari alcuni di musica elettronica, date le atmosfere che ne sono venute fuori? 

Quando sei un ragazzino di 15 anni ed inizi a suonare, parlo della mia esperienza, hai dei gruppi di riferimento come i Joy Division per esempio. Poi cresci, magari negli anni ‘90 ascolti e trai ispirazione da band come Sonic Youth e Fugazi. E tutte queste cose qui indubbiamente ti restano dentro, influenzandoti. Poi sì, io e Sara, abbiamo molti ascolti di elettronica. Non tanto l’elettronica della trap o cose del genere, per quanto io apprezzi la ricerca musicale che c’è all’interno di quella scena. Non conosco l’inglese per cui non capisco cosa dicono i testi, e quando li sento in italiano ovviamente mi si accappona la pelle, però a livello di ricerca musicale mi interessa. Mi sembra una ricerca molto meno reazionaria di quella che attualmente c’è nel mondo del rock, diventato, purtroppo per me, un mondo reazionario, privo di uno sguardo verso il futuro ed ancorato più o meno sempre agli stessi stilemi. Paradossalmente nella trap, al di là dei personaggi, con i quali difficilmente ci vorrei passare una serata assieme, noto che chi si occupa delle basi sperimenta molto. In realtà i nostri ascolti di elettronica comprendono prevalentemente artisti tipo Aphex Twin, ma entrambi ascoltiamo anche molti musicisti di classica contemporanea. Si tratta quest’ultimo di un mondo che ha acquistato una sempre maggiore leggibilità e fruibilità. Un mondo composto di nuovi compositori, spesso della mia età o anche più giovani che probabilmente avranno ascoltato le stesse cose con cui sono cresciuto io.Tornando a noi, abbiamo quel tipo di ascolti anche se ovviamente non volevamo emularli. Le influenze credo però che vengano fuori spontanee, nel senso che quello che ascolti, quello che ti piace, volontariamente o involontariamente, arriva ad avere anche un ruolo ispirativo.

L’approccio  alla chitarra è una cosa riguardo la quale tu e Sara vi siete subito trovati?

 La cosa che ci univa, ancor prima di suonare insieme, era l’interesse a sviluppare la timbrica della chitarra attraverso dei pedali. Non parlo di apparecchiature particolarmente tecnologiche e complicate. Si tratta di pedali che trovi normalmente nei negozi, privi di preset. Fondamentalmente devi muovere delle manopole e quindi sono anche suscettibili a delle variazioni, a degli scarti, dandoti l’opportunità di far venir fuori qualcosa di interessante con delle combinazioni strane, anche casualmente o con un approccio ludico nei confronti degli stessi.

A volte sei a casa che suoni, che provi un determinato effetto, e magari nasce qualcosa. Spesso i suoni sono i nuclei timbrici, non melodici o armonici, che originano delle idee musicali sulle quali poi si inizia a costruire.

Il timbro ti porta in una determinata direzione, è ovvio poi che se hai un violino o hai un bassotuba difficilmente proporrai lo stesso tipo di musica. Quindi i pedali è come se ti portassero da uno strumento all’altro, facendoti muovere verso una direzione di ricerca piuttosto che in un’altra, e dunque anche verso delle idee melodiche e armoniche. Su questa cosa qui entrambi ci abbiamo sempre lavorato in maniera separata ancora prima di conoscerci. Senza dubbio ciò è stato il nostro primo punto di contatto.

In “Flawed” avete evitato l’utilizzo di loop, computer, sample elettronici quant’altro. Come mai?

 Parto a risponderti con un motivo pragmatico. Sara è molto brava con i campionamenti, ha un ottimo coordinamento di tempo, di piede e cose del genere. Per me invece non è la stessa cosa, creo sempre un po’ di scarto, e utilizzando i campionamenti questo “errore” aumenta sempre più e mi mette una grande “ansia”. Al di là di questa ragione pragmatica, c’è che purtroppo quando fai dei campionamenti, anche dal vivo, tendenzialmente sei costretto a tenere quella progressione, quella tonalità, quel giro di note di basso, oppure quella ritmica per tutto il brano. Ti crei quindi una gabbia, non puoi modulare, non puoi rallentare. Hai difficoltà a fare delle dinamiche perché comunque il campionamento rimarrà sempre con lo stesso volume, con lo stesso tempo e con quelle note. Si tratta quindi di una gabbia dalla quale abbiamo preferito rimanere fuori, in maniera tale da avere delle strutture, passami il termine, più “antropomorfe”. Qualcosa che comunque potesse variare, qualcosa che avesse delle dinamiche. L’assenza delle quali, ad esempio nel rock, purtroppo è sempre stato un po’ un male, un limite, ed ultimamente lo è in maniera esagerata: non si sente più un forte, un piano, un rallentamento e cose simili. Perché privarsi di questa libertà espressiva con l’utilizzo di un campionamento?!. Ovviamente non stigmatizzo chi ne fa uso, ci sono artisti che li utilizzano in maniera egregia ed io ne sono un ascoltatore. Semplicemente non era il percorso che volevamo intraprendere noi, credo che ciò possa anche essere interpretato come una nostra cifra espressiva caratteristica, e siamo contenti di questa scelta. 

Qual è la dimensione live che proponete per questo progetto?

 

 La resa che cerchiamo di proporre è abbastanza verosimile rispetto a quello che si ascolta su disco. Il quale è stato realizzato quasi in presa diretta, con due linee di chitarra senza sovraincisioni. Quindi il live non si discosta da ciò che è stato registrato. Certamente su disco hai la possibilità di stoppare e poi riprendere regolando l’uso dei pedali in maniera molto più scientifica e precisa. Oltretutto noi avevamo iniziato a lavorare a questo progetto con l’ottica di un live, non con l’idea di realizzare un disco. Non c’è quindi improvvisazione all’interno del live, poi è ovvio che alcuni suoni prodotti possano cambiare soprattutto per quanto riguarda l’effettistica. Semplicemente poiché a livello umano spostare una manopola 1 millimetro in più in un verso piuttosto che in un altro produce un suono diverso, una variazione, ma si riduce lì la cosa, poi cerchiamo di proporre tutto come è venuto su disco.

Qual è la genesi del nome “A Bad Day” e come siete arrivati alla scelta della splendida foto che fa da copertina al disco?

 Il nome A Bad Day credo sia nato su Whatsapp in una giornata iniziata male, era venuto fuori questo messaggio “A bad day” che mi è sembrato figo come nome. Aggiungici poi che entrambi non abbiamo una visione molto positiva della vita, specialmente io, direi quasi cinica e dunque ci è piaciuto. Volevo poi anche fuggire dall’idea di musica carina e piacevole e dare un’impronta più “stronza”, perché le mie origini vengono dal punk quindi questa cosa mi è rimasta nell’approccio.
Per quanto riguarda la copertina anche lì la scelta è avvenuta un po’ casualmente. Qualche anno fa mi imbattei sul web in scatti di animali realizzati tramite fototrappole e ne rimasi affascinato. Ne ricordo una principalmente con dei caprioli che saltavano, probabilmente spaventati dal rumore e dal flash di queste fototrappole. Sara aveva delle conoscenze al Museo di Storia Naturale di Ferrara e abbiamo chiesto loro se avessero delle foto di quel genere e se avessimo potuto utilizzarle per la copertina del disco. Loro gentilmente ci hanno mandato un sacco di fotografie, ed inizialmente la nostra scelta era caduta su uno sciacallo. Poi però siamo stati rapiti da questo bellissimo scatto, che è finito in copertina, di quelli che pensavo fossero due falchi ma poi, tramite un amico che fa birdwatching, mi è stato spiegato essere delle albanelle reali, che si librano in volo nel momento in cui viene scattata la fotografia. E mi sembra che in un qualche senso possa essere collegata con alcune delle atmosfere contenute nel disco.

Intervista a cura di Francesco Vaccaro