Intervista a CASX : CREPE è un singolo che rompe la superficie


Arianna Puccio, in arte “CASX” ci guida in un viaggio musicale tra rotture e ricostruzioni, dove l’imperfezione diventa linguaggio.
Ciao Arianna e benvenuta tra le pagine virtuali di Tuttorock! Ti sei attribuita il nome d’arte CASX, che si legge “Casper”, come il personaggio di fantasia creato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’30 da Seymour Reit e Joe Oriolo. Quella “X”, tuttavia, sembra suggerire una rimozione più che un’aggiunta, quasi ti definissi come un soggetto indefinito e dai contorni sfumati. Un riferimento all’invisibilità. Cosa rappresenta per te essere un fantasma?
In realtà la X è perché mi avevano rubato “CASPER” su Spotify, e un mio amico mi ha detto: “Fai come POP-X, mettici la X!” [ndr, ride].
Ho scelto questo nome perché da adolescente ero molto introversa e spesso bullizzata verbalmente. Avevo paura di essere invisibile, ma non sapevo come farmi notare senza snaturarmi.
Casper è sempre stato un personaggio vicino a me: un fantasma che vuole essere amico di tutti, perché è buono, ma non riesce a esserlo perché gli hanno detto che deve spaventare o restare invisibile.
Nella vita di tutti i giorni sei una art director. Che rapporto hai con il linguaggio visivo?
Scrivo spesso per immagini. I miei dischi nascono prima come concept visivo che musicale. Il linguaggio visivo mi aiuta a trasportare chi ascolta dentro il mio mondo e ad aggiungere significati a ciò che scrivo.
“CREPE” è il tuo ultimo singolo, un brano che sembra un elogio all’imperfezione. Come è nato?
È nato dopo un anno e mezzo di terapia. Mi sono resa conto di essere una stakanovista, sempre alla ricerca della performance in ogni ambito della vita. Ma questo bisogno mi stava prosciugando da dentro.
Parlare di certi temi in musica può essere liberatorio, ma anche un atto di responsabilità. Come vivi tutto questo?
In questo caso, l’autolesionismo è più mentale che fisico. Ognuno si riconosce in base alla propria esperienza. Credo che la musica abbia la capacità di farti sentire meno solo e alleggerire il peso delle confessioni difficili, quelle che magari non riesci a fare nemmeno a te stesso ad alta voce.
Hai detto: “Solo quando smetti di trattenerti, riesci davvero a uscire dallo sfondo e occupare il tuo spazio”. C’è stato un momento preciso in cui questa consapevolezza ha preso forma?
Più che un momento, è stato un percorso. A un certo punto ho smesso di avere paura di sbagliare, ma ho iniziato ad avere paura di perdere pezzi di me stessa rincorrendo qualcosa che nemmeno volevo. Cercando di essere performante, stavo coprendo tutto – e nessuno capiva chi fossi davvero.
L’immagine della crepa è qualcosa che metaforicamente “rompe la superficie” e lascia intravedere ciò che sta sotto, qualcosa che ahimè spesso cerchiamo di nascondere. Se potessi guardare dentro una delle tue crepe, cosa ci troveresti?
Sicuramente la mia paura di non essere adatta ai contesti. Ma ci sto lavorando.
Il brano mi ha portato alla mente l’arte giapponese del kintsugi, dove le ceramiche rotte vengono riparate con l’oro, e le fratture diventano il punto di forza e bellezza dell’oggetto. In ‘CREPE’ senti il bisogno di trasformare ciò che si rompe in qualcosa di prezioso, o semplicemente più ‘autentico’?
Sì, decisamente. I miei pezzi sono autoterapeutici, li scrivo per affrontare delle difficoltà. Anche nel mio lavoro cerco sempre di rendere bello e unico ciò che per altri è un difetto.
Ti percepisci come porcellana… o ti attribuiresti un altro materiale?
Per questo brano la porcellana è perfetta come immagine. Ma in generale, mi sento più terra.
Hai avuto difficoltà a definire il brano attraverso il suono, senza appoggiarti all’immagine?
No, in realtà sapevo benissimo come volevo che suonasse.
La produzione ha un’energia grezza ma controllata. Come ci sei arrivata?
Avevo un’idea precisa fin dall’inizio. Lo volevo grezzo, scuro, grunge, per far emergere tutta la sofferenza che avevo dentro. L’inizio è come un cammino trascinato, come quando sei esausta e i piedi raschiano la terra. Ma alla fine del brano arriva una luce, un coro che dice: ‘non siamo soli’.
Hai dei progetti in cantiere?
Sì, ma mi prenderò del tempo per realizzarli. Ho bisogno di staccare e resettare. Negli ultimi anni ho corso tanto. Ora ho bisogno di respirare.
SUSANNA ZANDONÁ

Better known as Violent Lullaby or "The Wildcat" a glam rock girl* with a bad attitude. Classe 1992, part-time waifu e giornalista** per passione. Nel tempo libero amo inventarmi strambi personaggi e cosplay, sperimentare in cucina, esplorare il mondo, guardare anime giapponesi drammatici, collezionare vinili a cavallo tra i '70 e gli '80 e dilettarmi a fare le spaccate sul basso elettrico (strumento di cui sono follemente innamorata). *=woman **=ex redattrice per Truemetal