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GIANNI MAROCCOLO – Intervista al mitico bassista su “Botanica”

GIANNI MAROCCOLO – Intervista al mitico bassista su “Botanica”

In occasione del Festival Sky Arte, appena conclusosi a Palermo, ho avuto l’occasione di incontrare ed intervistare Gianni Maroccolo che insieme a Vittorio Cosma, Riccardo SInigallia, Max Casacci ed il Prof. Stefano Mancuso, ha presentato all’ Orto Botanico del capoluogo siciliano il secondo lavoro dei Deproducers: Botanica. Ecco un lungo stralcio della nostra chiacchierata:
 
 
Ciao Gianni, benvenuto a Palermo. Da anni, oltre che per la tua attività di bassista, ti distingui per la tua attività di produttore. Cosa stai seguendo al momento?
In veste di produttore sono quasi 10 anni che non seguo un artista e non credo che lo rifarò a breve. In passato ho quasi sempre prodotto opere prime, dischi d’esordio, che nel bene e nel male rappresentano percorsi faticosi, anche se belli perché hai a che fare col talento vergine e non troppo condizionato da ciò che ti circonda, per cui si riesce a lavorare proprio sull’essenza della musica. L’unica eccezione che ho fatto è per un gruppo di Roma, i “Life in the woods”, un trio giovanissimo, composto da diciannovenni che si rifanno alla musica di fine anni 60, che hanno gran talento. Scrivono bene, suonano bene ed in una settimana abbiamo quasi finito un disco.
 
Genere?
Rock.
 
Quindi non sei di quei produttori che pensano che il rock sia finito?
 Lo penso da quando io ho iniziato a suonare con i Litfiba che il rock fosse finito, per cui è abbastanza relativo quello che uno può pensare. Perché ho prodotto questi ragazzi? Ho prodotto questi ragazzi perché hanno un’essenza di verità dentro e, tutto sommato, un’onestà intellettuale nei confronti della musica. Mi ha colpito di loro la grande sincerità. In loro ho visto qualcosa che ha molto a che fare con l’essenza del rock’n’roll: scelte di vita di un certo tipo, qualità di pensiero… non solo musica! Quando dico che il rock è finito lo dico nel senso un po’ simile alla musica classica. Anche la musica classica è finita, però si continua a replicare in tutti i teatri d’Italia e del mondo. Il fatto che la forma della musica rock continui ad essere reiterata e replicata non significa necessariamente che sia finito. E’ una sorta di cerimonia che ogni volta si mette in scena e che ogni volta contiene tutti gli stereotipi e gli elementi estetici del genere, ma raramente quelli essenziali, quelli fondamentali, quelli di sostanza.
 
La musica è sparita dalla televisione generalista. Come è stato possibile che la musica sia stata classificata come un “bene di lusso”, qualcosa da potersi cancellare dai palinsesti? In quest’ottica ricordo trasmissioni come D.O.C. di Arbore che tanto rilievo hanno dato alla musica underground di quegli anni, contribuendo peraltro notevolmente all’emersione di quella scena new wave di cui certo sei stato tra i protagonisti…
Quella trasmissione fu una specie di oasi nel deserto. Ha rappresentato un’eccezione ed anche un’eccellenza nel modo di fare musica in televisione. Ma è rimasta, purtroppo, sia allora che a seguire, un’esperienza non coltivata. Lasciata lì.
 
 Direi, stranamente, visto i numeri che faceva ed i frutti che sviluppava per l’industria discografica…
 Di televisione ne so poco. E’ da ormai 5 o 6 anni che non ho una televisione. Non credo che sia il canale più adatto per vedere musica. Continuo a pensare che per vedere ed ascoltare musica il luogo più adatto sia quello del concerto, oppure (sono un nostalgico in quello) quello dell’ascolto serio di un disco. Ma un ascolto serio può essere anche quello di un video su Youtube. Non sono di quelli che pensano che si stava meglio 20 anni fa e che oggi tutto fa schifo. Di certo la televisione italiana, che sia quella privata (Fininvest prima, Mediaset poi) che la Rai, sin da quando ho iniziato, aveva pochissimi spazi per la musica, ad eccezione di piccole Oasi, come possono essere stati D.O.C. o Videomusic. Purtroppo esperienze che sono rimaste lì. Poi è partita MTV che però, invece di dare una spinta in avanti, ha sancito la fine di un periodo ed oggi siamo in qualche modo in una mutazione, ascoltiamo altre cose, ne fruiamo in maniera diversa, l’ascoltiamo magari da un computer o da un telefonino e fortunatamente però continuano ad esserci spazi per chiunque abbia voglia di fare musica. La cosa bella di questi tempi è l’abbondanza di musica che puoi ascoltare. Musica del mondo che purtroppo il mercato, regolato dalla cosiddetta globalizzazione, te ne fa arrivare il 4%. Ma se si entra nell’ordine di idee di andare a scoprire l’altro 96% che viene prodotto e suonato nel Mondo, c’è una bellezza e una ricchezza, a livello musicale, sconvolgente.
 
Parli di una varietà di espressione sconvolgente. Credi che in questo contesto ci sia un “Problema delle lingua” nell’ambito della musica italiana? Pensi sia disdicevole usare l’inglese per una band italiana, oggi che tanti programmi universitari portano i nostri ragazzi all’estero, tanti altri vanno a lavorarci, a viverci, che il modo di usare l’inglese si è implementato enormemente grazie ai corsi di perfezionamento e che tante band oggi riescono ad esprimervisi in maniera convincente?
Nonostante le mie esperienze passate, non ho mai pensato che ci si debba esprimere necessariamente con la lingua d’origine. Alla luce delle esperienze per cui un po’ mi si conosce, sono stato spesso catalogato come “settario”, ma in realtà io sono sempre stato apertissimo sia musicalmente sia per ciò che concerne la vita in generale. Non credo ci sia una regola, non credo esista una regola. So che quando siamo usciti con i Litfiba all’estero, Piero (Pelù) insistette moltissimo, ed io ero d’accordissimo con lui, nel voler proporsi così come si era, cantando in italiano. Magari si sforzava di spiegare il testo prima di suonare un pezzo in inglese o in francese, ma era una band italiana che si presentava a suonare all’estero. Credo che il successo che si ebbe allora fuori dall’Italia sia dovuto anche a questo approccio. Se Goran Bregovic viene in Italia a suonare le sue cose, lo fa in Serbo perché canta quelle cose lì. Allo stesso tempo non penso che ci sia una regola. Penso che sia talmente aperto questo momento che si sta vivendo da rendere possibile tutto. E’ ovvio che se tu, ad esempio, usi un linguaggio rock in tutte le sue varie declinazioni, cantando in inglese, ti vai a confrontare e ad entrare in competizione col mondo, per cui la qualità di ciò che proponi deve essere davvero molto molto alta. Altrimenti perdi prima ancora di aver iniziato. I grandi cantanti, le grandi storie che hanno avuto un po’ di visibilità all’estero, sarà casuale, non lo so, ma sono sempre artisti che cantano in italiano, vedi esperienze più classiche e lontane da me, tipo Bocelli, Albano, etc… O la PFM che poi ha tradotto delle cose in inglese… Paolo Conte riempie i teatri di tutto il mondo cantando in italiano o lo stesso Battiato ha iniziato cantando in Italiano traducendo poi delle sue cose in spagnolo… non so, non vedo una regola precisa. In linea di massima, non sono mai per creare dei confini, sono per abbatterli i confini!
 
La Contempo Records recentemente sta ristampando alcuni dei vecchi lavori in cui sei presente, ad esempio dischi storici come Amsterdam. Di recente hai però annunciato un tuo nuovo lavoro, il progetto “Alone”, il cui primo capitolo verrà presentato il prossimo dicembre. Ti va di parlarcene?
 Seguendo il filo logico di quanto si diceva prima, arrivato ad una certa età, reduce da storie importanti quali quelle dei Litfiba, dei CCCP poi diventati CSI, è logico che non lo prendi più in considerazione il fatto che possa esistere un altro gruppo, un po’ per fatica, un po’ perché sono cambiati i tempi, ma fondamentalmente perché sono state, quelle precedenti, talmente storie importanti, che è impossibile trovarne una terza di quella portata, andremmo oltre il miracolo. Per cui ho dovuto prendere consapevolezza che o smettevo di suonare, dedicandomi alla produzione e basta, o dovevo imparare a “bastarmi” e quindi mettermi in gioco, cosa che non avevo mai fatto fino ad ora, in veste di solista. Un po’ un paradosso, visto che per quanto io sia considerato un musicista, sono a tutti gli effetti un bassista, per cui è sempre più difficile fare le cose da solo. Ci sono arrivato piano piano. Prima la collaborazione con Claudio Rocchi per VDB, ancora prima con A.C.A.U. per il quale molti artisti mi hanno regalato testi e voci, poi ancora tutta una serie di esperienze con Aiazzi, con Chimenti con i quali abbiamo messo insieme una sorta di “concerto tipo” che desideravo da tanto, ma in cui c’era sempre un elemento di condivisione e una direzione. Invece in “Alone” sarò da solo, suono tutto da solo e casualmente (e non) ci saranno degli incontri speciali, ma non riferiti al passato. Adotterò la formula di una sorta di disco che rimane “aperto” finché avrò idee e che uscirà ogni sei mesi. In realtà si sa quando inizia, ma non si sa quando finisce e sarà quasi del tutto strumentale. Certamente sarà dedicato a pochi appassionati in quanto la sterzata è brusca a questo giro!
 
In passato avevi provato a renderti promotore di progetti multidisciplinari, penso ad Al Kemi Lab. Invece come è nato il progetto Botanica che stasera proporrete con i Deproducers nella magnifica cornice dell’Orto Botanico di Palermo?
Botanica nasce tanto tempo fa. Si parla di 5 o 6 anni fa. Nasce dal progetto dei Deproducers a sua volta nato da un’intuizione di Vittorio Cosma che voleva inventarsi qualcosa in cui fosse possibile far incontrare personalità molto diverse, con esperienze musicali molto diverse. Il progetto prevedeva che ciascuno di queste persone fosse anche un produttore. Ha pensato molto a chi potesse interessare un’idea così pazza ed alla fine ha deciso di chiamare Riccardo (Senigallia), poi ha chiamato me, ha chiamato Max (Casacci) e sono nati i Deproducers.
 
Quattro personalità molto diverse. Qual è il filo comune che vi unisce, semplicemente essere dei produttori o c’è dell’altro?
Il filo comune, può sembrare presuntuoso dirlo, è che quattro produttori si ritrovino e riescano a “deprodursi” e mettersi in gioco come musicisti. Non è affatto una cosa semplice. Allo stesso tempo nasce dall’esigenza che arriva un po’ con gli anni di recuperare quel valore primario di chi fa musica, di chi si incontra a 15 anni a suonare, ad improvvisare, a fregarsene se un pezzo dura X o Y,  a fregarsene su quando deve entrare il ritornello, etc… Parliamo di flussi emotivi che vanno. Flussi, flussi che vanno… il problema era che senso dare a questo tipo di improvvisazioni. Lì è poi nata l’idea, tutti insieme, di un progetto che non abbia al centro, come tematica e come significato testuale, la forma canzone. Avendo in formazione Riccardo (Senigallia) sarebbe stato perfetto pensare ad una forma cantautoriale, ma la volontà è stata quella di coniare una sorta di slogan interno alla band, che poi è diventato ufficiale: “Musica per conferenze scientifiche”. Quindi si è cominciato a contattare uno scienziato per ogni argomento. Ed ecco “Botanica”. Botanica che in realtà è il secondo capitolo, in quanto all’inizio si partì con “Planetario” che prevedeva la presenza di un astronomo, per cui si parlava di un’altra cosa. Esaurita quell’esperienza, con Aboca, abbiamo fatto Botanica, coinvolgendo il prof. Mancuso. Mentre continuiamo a girare per questi appuntamenti, stiamo già preparando il terzo “volume”. Il desiderio, come per “Alone”, di cui parlavamo prima, sarebbe quello di creare una vera e propria collana tematica. 
 
Grazie all’esperienza di Botanica siete andati al Global Seed Vault, la cosiddeta Banca dei Semi alle isole Svalbard, nelle ultime propaggini abitate dagli uomini. Che succede laggiù?
Siamo andati lì, perché uno dei pezzi del disco, parla proprio di quel sito. Si, siamo andati in Norvegia, anzi molto più a nord, appunto alle Isole Svalbard, l’ultimo avamposto abitato dagli esseri umani. E’ un posto abitato da circa 2000 persone, dove tieni conto non si possono neppure seppellire i cadaveri a causa del terreno ghiacciato. Un posto particolarissimo, dove sia per nascere che per morire si deve andare in Norvegia. Ma al di là di questi elementi di costume, il fatto è stato quello, con Aboca, di testimoniare queste attività (la Banca dei semi). Il fatto che loro avessero potenti strutture mediatiche permetteva di informare e sensibilizzare tante persone che non hanno la minima idea di certe problematiche e soprattutto avvicinarle al progetto divulgativo che stiamo portando in giro. Come dice spesso Mancuso a conclusione di queste serate, speriamo che ne usciate con una diversa percezione del pianeta in cui viviamo. Pertanto questa è stata una sorta di improvvisazione musicale, visionaria, se vogliamo. Ci siamo ritrovati lì, con un freddo bestiale, davanti a questo posto, chiuso peraltro, poiché non era il periodo giusto, a narrare una storia. Siamo stati due giorni lì, ad assistere alle aurore boreali, a visitare quei posti magnifici e siamo quindi tornati, con questo piccolo documento che in qualche modo arricchisce il progetto e lo spirito del progetto.
 
Quando hai iniziato a suonare c’era un po’ lo spauracchio della guerra atomica e tanti gruppi dell’epoca prendevano spunti dalle tematiche della Guerra Fredda. Oggi che quella paura pare un po’ scongiurata, pensi che ci stiamo preparando a nuovi scenari apocalittici che rendono necessarie iniziative come il Global Seed Vault? Cosa pensi a riguardo?
Se si è attenti alla lezione di Botanica, dove il professor Mancuso esprime più concetti, vale per l’Atomica come per qualsiasi altra cosa. Il Male che stiamo facendo al Pianeta, che siano guerre, che sia far estinguere razze di animali, radere al suolo foreste, etc… è ovvio che mette in crisi il sistema nel suo insieme. Vedi il buco dell’ozono; però allo stesso tempo, quando scopri che il 95-96% del pianeta è popolato da piante e che noi esseri umani facenti parti di un mondo animale siamo appena il 4%, noi stiamo facendo del male esclusivamente a noi stessi. Te ne puoi buttarne anche 6 di bombe atomiche, le piante sopravvivranno. Soffriranno, certo, ma loro sopravvivranno… noi no! Pertanto, rispettare la natura non è solo un fatto di etica o di morale, ma proprio un discorso di sopravvivenza, per cui ti fa capire quanto proprio siamo idioti noi esseri umani! Quanto siamo presuntuosi, anche nel momento in cui diciamo: “Stiamo distruggendo il Pianeta”. Noi non siamo in grado di distruggerlo, siamo solo in grado di distruggere noi stessi! La cosa bella di far parte di un progetto come questo (Deproducers/Botanica) è che ti porta ad aprirti la mente su certi argomenti ed a scoprire delle cose. Questo è valso anche per Planetario dove si investigava il mondo delle stelle, dell’astronomia. Ancora di più lo sarà nel prossimo “capitolo” che posso anticiparti sarà un viaggio dentro noi, letteralmente dentro di noi.
 
MASSIMILIANO AMOROSO
 
 
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