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FRANCESCO SACCO – Intervista all’eclettico cantautore

FRANCESCO SACCO – Intervista all’eclettico cantautore

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In occasione dell’uscita del video del singolo “L’invenzione del blues”, tratto dall’album di debutto “La voce umana”, ho intervistato telefonicamente l’eclettico cantautore Francesco Sacco.

Ciao Francesco, benvenuto su Tuttorock, innanzitutto come sta andando per te questo periodo post lockdown e come hai vissuto la quarantena?

Ciao Marco, piacere! Guarda, sono in smart working da una vita quindi ho sentito poco la differenza. Lavorando da casa sono abituato a passare le giornate alla scrivania a produrre piuttosto che sul divano con la chitarra, quindi ci ho messo un po’ a realizzare la portata della cosa che è stata però molto pesante dal punto di vista sociale delle relazioni. Adesso che stiamo tornando pian piano ad una seminormalità, io, come credo tutti, sto tirando un bel sospiro di sollievo, significa che obiettivamente le cose stanno andando meglio in generale e, facendo un discorso lavorativo, tutti quei mestieri che richiedono una presenza fisica, tipo nella ristorazione, è bene che stiano ripartendo con le dovute precauzioni. È stato anche un periodo molto impegnativo per il promo sul disco, poi sono appena rientrato dalla Toscana dove ho partecipato a dei workshop, insieme a mia moglie Giada, coreografa, in una scuola di architettura nel Chianti. Abbiamo cercato di integrare delle cose tipo performance e suoni con questi giovani progettisti, è una cosa che non avremmo potuto fare in pieno lockdown e l’apertura dei confini regionali ci ha permesso di spingerci un pochino fuori dalla nostra amata Lombardia, che a luglio diventa anche un luogo difficile dove vivere.

Il primo singolo estratto dall’album è “Berlino Est”, dove il muro che risalta dalle tue parole è quello che viene costruito quando c’è uno scontro tra due persone, sei d’accordo che il dialogo è lo strumento migliore per abbattere questi muri?

“Berlino Est” è uscita nel periodo di lockdown, è un brano che parla di contatti umani e relazioni ed è stata una scelta delicata, ci ho pensato molto se pubblicarla o no in quelle prime settimane di quarantena. Il brano racconta di quel momento che c’è tra un’incomprensione seria e il chiarimento, dove ti chiedi se valga la pena andare avanti e rovinarsi la giornata. Alla fine la mia risposta personale è sempre sì, perchè rimanere con delle cose in sospeso è molto brutto e si crea questo muro di incomunicabilità in cui non sai bene come muoverti e, nel tempo, si cristallizza un pochino quel periodo di stasi. “Berlino Est” nasce proprio dall’esigenza di raccontare una situazione del genere, è un brano molto autobiografico come tutti i brani del disco, parte da un’esperienza del genere all’interno della relazione che vivo e ho cercato di descrivere quel tipo di sensazione riassumendola con un’immagine metaforica, ovvero quella del muro di Berlino, una barriera di mattoni che divideva affetti, famiglie, amicizie in modo anche più intransigente rispetto ad una barriera invisibile che, non è detto, sia più facilmente sormontabile di un muro fatto di mattoni. Devi comunque arrampicarti al di là di quel silenzio per trovare il dialogo, il confronto, ovvero la principale chiave di soluzione del problema. È una delle ultime canzoni che ho scritto, la tracklist è fatta quasi al contrario rispetto all’ordine in cui le ho scritte. Mi sono scritto una nota sul telefono quando mi trovavo nella situazione della post discussione, “hai la faccia di berlino Est”, e il giorno dopo l’ho sviluppata aggiungendo anche gli accordi.

Nel brano c’è il theremin, uno strumento non proprio comune ma che ci sta benissimo, come ti è venuta l’idea di usarlo?

Di base sono chitarrista ma ho una grande passione per il mondo dei synth analogici. Il theremin l’ho scoperto da ragazzino grazie a Jimmy Page dei Led Zeppelin, lui lo usava per fare un po’ di casino. Io ho un theremin che mi è stato regalato da mia moglie Giada e lo uso molto nelle mie produzioni teatrali perchè ha una gamma di suoni che ti portano naturalmente verso la sperimentazione. È uno strumento nato per essere quasi una voce, uno strumento armonico, ci ho messo un sacco di tempo ad imparare ad usarlo in quel modo, volevo mettere un synth nell’outro del brano e ho detto, perchè no, proviamo a farlo col theremin, sono piuttosto contento del risultato perchè ha quella dose di inaspettato che mi piace molto. Ascolto cose molte diverse tra loro ed ho cercato di mettere d’accordo mondi che normalmente non sono più di tanto in contatto.

Infatti nelle tue canzoni si sentono tutte queste influenze, che tu sei riuscito a mettere insieme in maniera ottimale, so che è brutto per un artista essere racchiuso in un genere musicale, tu dove ti collocheresti oggi, qualcosa come un cantautorato teatrale con ispirazione anni 70?

È molto difficile, mi ricordo che conobbi Bertoncelli, il grande critico musicale, mi disse: “per me le persone intelligenti tengono i dischi in ordine alfabetico, quelli stupidi divisi per genere”. L’ho sempre pensata un po’ così, mi rendo conto che a livello orientativo il genere sia molto utile e, soprattutto oggi che esiste lo streaming digitale, è fondamentale per far lavorare l’algoritmo che ti suggerisce cose simili a quelle che ascolti già. Tornando alla tua domanda difficilissima dalla quale sto cercando di scappare definirei il mio disco appartenente al “cantautorato”, sì, gli anni 70 ci sono molto, sono cresciuto artisticamente tantissimo ascoltando da ragazzino valanghe di musica anni 70, dal rock più classico alla ripresa del mondo del blues, tantissimo prog, poi però c’è tanto cantautorato classico italiano, una cosa che ho iniziato ad ascoltare un po’ dopo, il testo ha molta importanza qui da noi, un sacco di gente che si ascolta i Radiohead va a leggersi i testi al secondo o terzo ascolto, nella musica italiana per forza il testo è davanti. Questo disco aveva bisogno di un percorso cantautorale più tipico in cui il peso delle parole possa diventare musicale, io non mi reputo un gran cantante, sono gli altri quelli bravi con l’estensione e il controllo. Ho voluto mettere in primo piano il discorso verbale, tante volte sono nati pezzettini di testo prima o in contemporanea con la musica. Per me è più importante passare un contenuto che saper cantar bene.

Parliamo del tuo bellissimo disco, uscito lo scorso 29 di maggio, dal titolo “La voce umana”, un riferimento all’omonima opera teatrale di Jean Cocteau. Tu e il teatro, che rapporto avete, so che hai fondato il Cult of Magic, di cosa si tratta?

Allora, il teatro è un incontro che ho fatto per caso, ho iniziato a lavorare in teatro per la danza contemporanea in un momento in cui avevo smesso di comporre, avevo circa 21 anni ed ero a Milano da poco, scrivevo per Rolling Stone e mi sembrava impossibile pensare di guadagnare più di 5 euro dalla produzione musicale. Ho incontrato una coreografa, Susanna Beltrani, mi ha chiesto all’inizio una serie di consulenze su un suo spettacolo, ci siamo trovati bene e mi ha proposto di comporre, da lì ho rotto le dighe e sono tornato al 100% a dedicarmi alla musica senza piani B. Da allora ho approfondito tantissimo il discorso teatrale che mi ha aiutato molto anche su quello che è la musica in senso stretto. Sia nel teatro di prosa che nel teatro che frequento io, più sperimentale, c’è un attenzione pazzesca al senso drammaturgico delle cose e ciò mi ha insegnato il valore dei dettagli. Da questa sono nate altre collaborazioni con altri coerografi sia in Italia che all’estero, alcuni li porto avanti altri si sono conclusi, parallelamente ho fondato Cult of Magic, insieme alla coreografa e danzatrice Samira Cogliandro e a mia moglie Giada Vailati, anche lei coreografa e danzatrice. È nato da un’esigenza, avevo appena fatto un disco che non sapevo come portare live, ogni tanto andavo in studio e registravo tutto a nastro in stile anni 70, impossibile però da rifare live. Allora ho pensato al nostro primo spettacolo in cui c’è anche la danza ed è stata la genesi del collettivo. Raccoglie persone di teatro ma anche videoartisti, fotografi, figure molto diverse e mi piace tenermele lì per i progetti più pazzi. La musica non gode della stessa libertà di cui gode il teatro, dove ci sono ancora meno soldi che nella musica. Il teatro ha sempre vissuto di sovvenzioni da parte di enti culturali, questo però ha sempre dato alle compagnie una libertà pazzesca. Penso ad esempio a Jan Fabre che ha fatto uno spettacolo di 24 ore senza pause, è un livello di spingersi in là che la musica raramente si può permettere, o sei un Brian Eno a 65 anni che con la carriera che ha alle spalle può fare quello che vuole ma se vuoi venire a galla in qualche modo è difficile tu possa avere questa libertà. Il teatro mi ha insegnato molto e il disco, almeno nel titolo, si rifà a un monologo teatrale.

La musica dal vivo stava vivendo un periodo di crisi già prima del lockdown, il virus è stato come il colpo di grazia, molti locali non riescono più a riaprire e conseguentemente gli spazi dove poter presentare la propria musica sono sempre di meno, tu come vivi questa cosa, hai idee in merito?

Sicuramente è una situazione abbastanza tragica, c’è un po’ un concorso di colpa, è vero che non siamo stati considerati dal Decreto Cura Italia, vero è anche che la musica live, anche per esperienza diretta, si è sempre retta molto sul nero. Pochi locali mettevano in agibilità i musicisti, pochi versavano tasse. Ogni mattina mi sveglio e leggo di un locale nuovo che ha chiuso, a Milano molti circoli piccoli non ce la fanno, credo che la musica live sia un’esperienza insostituibile, senza schifare il mondo dello streaming, tipo, se voglio fare un concerto sul tetto del Duomo di Milano, dove non ci stanno le persone, posso fare un live streaming e può diventare interessante. Però, opinione mia, quella cosa lì non potrà mai sostituire l’esperienza di 50, 100, 1000 persone che stanno davanti ad un artista che suona, sia per il pubblico che per l’artista stesso. Io credo che si rivaluterà lo spazio pubblico, parlo di Milano perchè è la mia città, dove ci posti molto interessanti comunali o gestiti da enti pubblici e privati. Per esempio, con il collettivo, avevamo usato un teatro in parco Sempione all’aperto dove non fanno mai niente e sta lì a marcire. Spero che, almeno su questo fronte si sveglino pubblico ed enti per concedere spazi per fare cose del genere, ci sarà tantissima autogestione molto più presente di prima. La gente ha molta voglia di tornare a vedere la musica dal vivo, così come noi musicisti abbiamo voglia di tornare a suonare, ovvio che bisognerà stare attenti, seguire le norme, ma bisogna in qualche modo riaprire e tornare presto a condividere la magia della musica dal vivo che è un rito collettivo insostituibile.

Tu sei del 1992 e sei all’album di debutto, prima di questo cos’hai fatto nella musica a parte nel mondo del teatro?

Ho avuto innumerevoli band da ragazzino con le quali ho registrato quintali di roba uscita e non uscita, ho prodotto un disco con il collettivo che è uscito come Cult of Magic, poi ho prodotto dischi per altri, abbastanza pop, come quello di Irene Maggi, poi ho lavorato molto in teatro e con brand di moda, musiche per sfilate, per eventi, installazioni sonore. Questo “La voce umana” lo considero davvero il mio primo disco, un album dove scrivo, suono e mi autoproduco.

La scorsa settimana è uscito il video del singolo “L’invenzione del blues”, com’è nato quel brano?

È un brano che parla essenzialmente di adolescenza, di quel limbo in cui non sei un bambino ma neanche un adulto e cerchi di iniziare a relazionarti con il mondo. La chiave di lettura del disco è sempre inclusa nelle relazioni, in questo brano è un tema preso da un’angolatura diversa, che parla di un periodo in cui la relazione è più immaginaria. Io sono nato e cresciuto a Novara e in quegli anni vivevo nella mia cameretta, in quel microcosmo di mondi paralleli dove, se vuoi, un giorno sei BB King, il giorno dopo sei Babbo Natale. Sono tentativi che uno da ragazzino fa per mettersi in relazione col mondo e con gli altri per trovare un proprio posto. Il brano parla di questi piccoli tentativi di creare un mondo musicale che ti dia un posto nel mondo, io in quegli anni mi sparavo tonnellate di blues, ero fra i pochissimi che, a Novara, a 16 anni, ascoltava quel mondo.

In “Maria Maddalena” e “Il Lido di Venezia” sconfini nella musica sacra, tu cosa ne pensi delle religioni in generale?

È una di quelle domande che potrebbe richiedere dalle 8 alle 10 ore di risposta. Sono un grande appassionato di esoterismo e di spiritualità in generale, partendo comunque da una base fondamentalmente atea. Una mia grande fissa adolescenziale è stato Alesteir Crowley, sono molto appassionato di quel tipo di magia, lui ha fatto una cosa molto interessante, poi ci sono persone che la possono pensare diversamente, però lui recuperava tutti i sistemi religiosi in chiave simbolica come fossero racconti che ti possono mettere in comunicazione con parti del tuo io che non per questo sono sul piano di realtà che vogliono le religioni. Riprendere queste cose su un piano allegorico permette un approccio nuovo alla spiritualità. Credo che moltissime persone abbiano bisogno delle religioni, da persona atea io le vivo come delle grandi autolimitazioni, se si prende l’aspetto normativo. Ho letto tutta la Bibbia, se presa come documento storico è super interessante, se preso come testo normativo può diventare pericoloso. Riguardo alla musica sacra, le religioni hanno sempre trovato un campo libero gigantesco, tutto è arte sacra, tutti i pittori dipingono soggetti religiosi, è un mondo che mi affascina tantissimo, ho fatto produzioni in passato molto più dense di queste cose, soprattutto in teatro. Un pochino, in questo disco, le ho messe, ad esempio ho dato i tratti storici a Maria Maddalena, fondamentalmente una donna innamorata che sta con Gesù Cristo e i suoi apostoli, ho cercato di darle un contenuto che si allontani un po’ da quelli soliti. In “Il Lido di Venezia” c’è l’Alleluja che si canta a Messa, certe canzoni da Messa per me sono fantastiche, quasi prog, da piccolo suonavo l’organo in chiesa e mi divertivo molto.

Il tuo più grande sogno musicale qual è?

Difficile riassumere questa risposta in poco spazio. Avendo appena pubblicato uun disco ho un gran desiderio di essere ascoltato, l’ascoltatore è la più grande conferma che un autore possa ricevere, mi auguro che il disco piaccia e raggiunga più persone possibile, se così non fosse significa che ho sbagliato qualcosa io, è sempre chi scrive la causa, non chi ascolta. Ho tante aspirazioni e tanti sogni, mi piacerebbe portarlo live in modo strutturato, ovvero accompagnato da una band ben strutturata, avere theremin, batteria e basso, con attenzione alla messa in scena, con anche un monologo in apertura recitato da qualcuno. Ci stiamo lanciando in quest’altra impresa del vinile e lo stamperemo, è sempre una scommessa. Spero che il mercato musicale possa diventare un po’ meno schiavo dei numeri, del “quanti ascolti hai fatto”, “quanti follower hai”, cose che hanno peggiorato il sistema e che buttano l’artista in una sorta di frullatore senza sosta. Questo peggiora la qualità della musica e dell’ascolto, se io ascolto 800 cose e sono bombardato di informazioni è minore la cura che metterò nell’ascolto. Bisognerebbe rallentare un po’, come stanno facendo nel mondo della moda, facciamo parte di questi anni e abbiamo noi le possibilità di cambiarli usando i mezzi che abbiamo.

Grazie mille per il tuo tempo Francesco, vuoi dire qualcosa ai lettori di questa intervista?

Grazie a te e a Tuttorock dello spazio che mi avete concesso! Un primo premio a te che sei la prima persona che mi abbia mai fatto una domanda sulla religione, è un tema che mi è molto caro e tante volte si parla solo del materiale musicale, è interessante invece parlare anche di ciò di cui scrivo, non vivo solo di musica e la mia vita è fatta di pensieri, libri, cene, spiritualità, grazie davvero. Sono contento che ti sia piaciuto il disco e spero che possa incuriosire anche i lettori e magari piacergli, ciao!

MARCO PRITONI