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Fidanza Jazz Combo: intervista su Do Si La Sol Fa Sofà

Fidanza Jazz Combo: intervista su Do Si La Sol Fa Sofà

In occasione dell’uscita di Do Si La Sol Fa Sofà abbiamo intervistato i Fidanza Jazz Combo

 ‘Do Si La Sol Fa Sofà’ è un album che celebra l’italianità: giocoso nei termini, richiama i marchi iconici che hanno fatto la storia del Belpaese come la Vespa o la passata Cirio, ma anche oggetti comuni come la tazzina di caffè, il sofà o perfino l’antipatica multa. Cosa ti ha ispirato a creare un album che mescola storie quotidiane e jazz?
Vi dirò la verità: mi sono sempre chiesto come facevano i cantautori a scrivere tutte quelle canzoni d’amore! Una bella fetta della nostra vita trae piaceri e crucci da situazioni e oggetti che chiamiamo comuni, su cui magari Dante non avrebbe poetato, ma che nondimeno ci regalano emozioni.
Viaggiare spensierati in Vespa, scoprire il mare all’ orizzonte, e poi sentire il motore borbottare e abbandonarci, non è forse un tripudio di gioie e dolori?

Il vostro stile è moderno, tuttavia non manca quella spinta swing che rende l’atmosfera vintage e ti fa immaginare i piccoli elettrodomestici lucenti della Smeg tutti laccati, posti in ordine sul ripiano della cucina. Ma c’è anche l’armadio con le ventitrè giacche, cinquanta cravatte e il cappello blu. Questi “non” luoghi, perfetti simboli di italianità, con i loro odori e gesti familiari, ritornano un po’ in tutto il disco. Come hai cercato di esprimere questa dimensione nella musica?
La tua domanda è quasi più bella del disco! È proprio quell’ atmosfera un po’ vintage che fa perfettamente rima con lo Swing, la radio accesa, i ricordi di una canzone che arriva inaspettata e ci fa sobbalzare il cuore. Dopo aver esplorato e suonato un bel po’ del repertorio italiano della prima metà del Novecento, avevo il linguaggio a portata di mano.
Non ho voluto imitare pedissequamente i brani dell’epoca, ma piuttosto unire alla mia ispirazione la lezione che ne avevo appreso. Alcuni brani infatti sono più lontani dalla tradizione, ma l’atmosfera è quella, un po’ senza tempo, di una vecchia foto di sorrisi un po’ sbiadita che ci piace guardare e riguardare. Come le caramelle rosse che ci regalava la nonna.

C’è anche un po’ di America, però, citate i fratelli Gershwin…?
Lo swing è nato in America, non possiamo negarlo — e Natalino Otto e gli altri pionieri italiani ce lo hanno portato, non senza affrontare le restrizioni culturali dell’epoca. Ma la tradizione è nata li, e il mio studio è partito dai Gershwin, dai Rodgers and Hart, da Cole Porter, per citare alcuni dei grandi Maestri. Ai loro brani ho anche dedicato un disco nel 2023, e penso non sarà l’ultimo: è li l’origine del songbook americano, che da Nat King Cole a Miles Davis per arrivare ad oggi, è rimasta la bibbia del jazz.

Dite che ne “hanno fatti di gran pezzi”, ma quali sono i migliori a vostro avviso?
Oh, quanti brani ho, sinceramente, nel cuore! Non direi migliori, perché non ce n’è uno che non mi piaccia, ma alcuni tra i miei preferiti li cito nel testo del mio omaggio: My ship, A foggy day, Our love is here to stay. Ed altri tra i meno noti, che adoro suonare: Nice work if you can get it, It ain’t necessarily so, How long has this been going on.

L’uso degli archi in un contesto jazz è qualcosa di piuttosto insolito, come è nata l’idea di aggiungere violini, viola e violoncello?
Vero. Per La tazzina di caffè volevo evocare un’atmosfera sognante e dare al disco una partenza più lieve e meno sincopata, e gli archi sono stati una scelta naturale, che ben si fondeva con il registro del canto.
Per La vespa cercavo un tono dolce e amaro, di romanticismo e malinconia — la malinconia di una Vespa che fa una fine fumosa — e il quartetto d’archi suonava nella mia testa come il giusto timbro. Poi in studio è nata l’idea di usare gli strumenti per imitare il suono dell’officina del meccanico, ed ha funzionato bene!

Immagino che ci sia stato un corposo lavoro di arrangiamento, vuoi parlarmene?
Sì, testi e musiche sono nati prima, con chitarra e pianoforte, e poi quando ho deciso di incidere è iniziato il lavoro di arrangiamento.
Per archi e fiati la gran fatica di interpretare le mie idee e portarle sul pentagramma è stata di Toni Fidanza, con cui ho lavorato per alcuni mesi sui cinque brani con la formazione estesa — senza fretta, in un dialogo fraterno e divertente. Lo cambiamo questo accordo, Fa? — diceva Toni — ma no, dai! — rispondevo io, e giù grattacapi per Toni!
Per gli altri brani avevo già in mente una idea di suono (o di follia, come ne “Il cantore Tibetano”, in cui eseguo il canto difonico sulla ritmica swing) ma buona parte del lavoro è stata fatta in studio, dato che i miei sodali erano tutti ben calati nello stile e hanno colto in modo perfetto lo spirito del disco.

Solitamente suonate in duo e in trio. Avevate già lavorato insieme a Irene Tella, Lorenzo Di Giuseppe, Olga Muryn e Mehdi Chbary in progetti precedenti o questa è stata la prima volta che li avete coinvolti in un lavoro collettivo?
È stata la prima volta che abbiamo lavorato con Irene e i suoi colleghi in quartetto, ma la sua leadership e l’ottima preparazione sua e di Olga, Lorenzo e Mehdi ci ha fatto portare a casa i brani in poco tempo, e con il delizioso impasto sonoro che potete ascoltare nel disco.
Fabrizio Mandolini, Alessandro Di Bonaventura, Riccardo Maggitti e Francesco Di Giulio sono invece amici di vecchia data, con i quali ci siamo più volte incrociati tra palchi e studio.

Quali sono state le sfide maggiori che avete affrontato durante la realizzazione?
Certamente la decisione di iniziare a trasformare i brani in un disco!
Ma anche abbracciare il tempo necessario a far maturare i brani nella loro forma finale, e non affrettarsi nel trovare i musicisti giusti per registrare.
E infatti posso dire con certezza di non averne sbagliato uno!
Oltre a Dario e Toni, ormai da tempo compagni di viaggio, e il poeta dei sassofoni Fabrizio Mandolini, anche Tommaso Paolone, amico con cui non avevo mai lavorato, è arrivato come una ciliegina sulla torta dell’ultimo minuto, ed una di quelle ciliegine buone veramente.

Dove potremo incontrarvi a breve?
Questa è la domanda giusta per lanciare un appello alla nazione, ma anche all’Europa, Africa, Asia, America e Oceania! (Antartide meglio di no, le chitarre soffrono il freddo).
Al momento il nostro raggio d’azione è piuttosto ristretto, è dentro un cerchietto che copre un pezzo di Abruzzo, Marche e Lazio — come sapete suonare nei club è una sfida per gestori e musicisti. Trovate le nostre date sui social cercando Fidanza Jazz Combo.
Il mio obiettivo, dopo l’uscita dei nostri ultimi due album nel 2024, è di suscitare un nuovo interesse nello Swing italiano, un po’ come fece Caputo nell’ottantatrè, e riuscire a suonare in qualche festival o club più importante, espandendo il nostro raggio verso Sud e verso Nord.
Ma non vi nego che da cinque anni a questa parte una buona fetta delle nostre esibizioni avviene nelle strade e piazze delle belle città italiane che accolgono gli artisti: è un modo fortemente diretto, senza mediazioni, di portare la nostra musica a tutti, e ci da grandi soddisfazioni.

Grazie per il vostro tempo e in bocca al lupo per la promozione del vostro album.
Grazie a voi per il vostro prezioso lavoro!

SUSANNA ZANDONÀ