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CHRISTINE IX – Un’artista completa alla ricerca del “Blue”

CHRISTINE IX – Un’artista completa alla ricerca del “Blue”

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Se ci domandassero di abbinare al genere “rock” uno o più colori, in automatico ci verrebbe spontaneo pensare al Nero e alla sua “immancabile accoppiata” con il Rosso. L’artista che andremo a intervistare oggi, invece, già a partire dal titolo del suo album “Can I Frame the Blue?”, ci invita inconsapevolmente a porre la nostra attenzione sul Blu, colore che immediatamente  rimanda ad acqua e cielo. Christine IX, artista poliedrica che canta e suona canzoni scritte da lei,  oltre all’amore viscerale per la musica, si distingue anche per il suo impegno in altre attività, tra cui il giornalismo. Ascoltando i brani del suo ultimo cd sembra proprio di avvertirla questa costante sensazione di “bilico” tra l’ “altezza” più assoluta in contrasto al forte attaccamento alla realtà. Si parte dalla “terra”, dalla passione e voglia di fare bene le cose per aspirare all’oltre, ai territori insondati dell’anima, ai misteri profondi dell’Universo. Donna prima ancora che musicista, Christine IX, ci ha aperto la porta del suo mondo ricco di sfumature parlandoci anche della convivenza di Cristina (questo il suo nome all’anagrafe, ndr) ragazza che vive la routine di ogni giorno come tutti noi, e Christine IX che -invece- sogna in grande e aspira a raggiungere la “stella polare” dell’Amore in tutte le sue forme, prima fra tutte, quella musicale. Ma lasciamo sia lei stessa a parlarci di sé…

Ciao Christine, ho avuto modo di ascoltare il tuo album “Can I Frame The Blue?” e mi ha creato moltissima curiosità verso la  persona che si cela dietro l’artista. Hai un nome d’arte e canti in inglese, due modi di “nascondersi” misteriosamente. Io adoro il mistero, ma avresti voglia di raccontarci in qualche parola chi è Christine, dove è nata, dove vive e come nasce il suo amore viscerale per la musica?
Pensavo che la volontà di nascondermi fosse fin troppo palese, eppure sei la prima persona a notarla. Christine IX, di nome e di fatto, vuole essere un progetto incisivo come un’epigrafe romana. Parlo per immagini perché mi viene meglio, evocare è l’unico mezzo che adopero per scrivere e per tessere qualunque tipo di composizione, dalla musica ai fotogrammi mentali dai quali prende vita. Con un atto di presunzione, alla memoria visiva è arrivato un personaggio: una donna seduta su una sedia ben salda, apparentemente irremovibile, pietrificata, impassibile, chiusa in un atto di ricerca interiore, che la rende inabile a distogliersi. Con un bel faro puntato alle spalle. È così che mi dipingo questo alter ego, una figura ancestrale, che lascia fare il resto alla musica e alle parole, in tutto e per tutto incoerenti con ciò che vuol dare a vedere: note di nostalgia, melanconia, rivalsa, prese di posizione per rivendicare un’identità che cerca di scucirsi dalla folla. Una musica molto legata al passato. Un passato che cerca di rivendicare romanticamente la propria vita, con una sorta di recollection in tranquillity alla William Wordsworth, in cui, però, il ricordo si carica anche di un forte potere alienante.
Cristina, invece, è una “provincialotta” che lotta ogni giorno contro il provincialismo. Provengo da un paesino vicino Lecce, che non è proprio una realtà rose e fiori, come si vuol far credere al turista medio. Un tempo nel Salento non c’era lavoro, ma c’era cultura. Poca, soppesata, sotterranea, ma c’era. Ora non c’è neppure quello. Vivo in un posto che non è in comunicazione con niente. Non confina con nulla, se non con il mare. E spesso il rischio più grosso per un piccolo mondo è quello di credere che non esistano altri mondi e confronti possibili. Siamo dei lillipuziani. Penso che l’amore per la musica sia nato proprio dal senso di estraneità al contesto. Una liceale di provincia in una scuola di mille persone, un posto in cui brulicavano slang a me ignoti e gruppetti di vincenti. Praticamente una metafora e prefigurazione di quello che sarebbe venuto dopo. La musica è stata un’ancora di salvezza e, prima ancora, lo è stata la poesia.

La tua attività inizia nel 1999 e l’ultimo brano del tuo album si intitola proprio così. Quest’anno è l’ultima prima dell’inizio di quello che chiamiamo il Nuovo Millennio, il 2000. Nel passaggio tra lo scorso secolo e questo hai avvertito qualche cambiamento a livello sociale? E in campo musicale?
Credo di non aver fatto in tempo ad avvertire il cambiamento sociale e musicale, perché la mia vita stava cambiando ancor più velocemente. Ho percepito solo dopo quella fine di un mondo. Il brano si intitola “1999” semplicemente perché è stato l’anno più bello della mia vita: la liberazione dal fardello del liceo e delle sue “facciacce” sorridenti, la patente e le escursioni più improbabili, tanta musica urlata, poesie, i primi viaggi da sola, ma, soprattutto, i miei amici. Sicuramente c’era nell’aria quel languore tipico di qualcosa che volge alla fine ed ho avuto la fortuna di far coincidere la conclusione della mia adolescenza anagrafica con il crollo del mondo analogico. Un mondo fatto di imprevisti ed avventure, di lettere di carta, di tête-à-tête e casualità che rimpiango moltissimo.

Tu hai un canale Youtube? Che ne pensi di questo mezzo di comunicazione? Hai mai pensato e/o già avuto esperienze come youtuber?
Ho un canale Youtube, per ovvie ragioni musicali e pubblicitarie. Penso che qualunque mezzo usato ai fini della creatività possa avere una valenza positiva. Non ho avuto ancora particolari esperienze come Youtuber, a parte il fatto di aver scritto la storyboard per il video del mio primo singolo, “Black Corolla”, del quale ho curato la scenografia e l’editing (la regia è di Salvatore Zullino), ma nella vita non escludo nulla e questo lo faccio ormai un po’ per partito preso, in ogni campo.

Scrivi e canti in inglese, oltretutto suoni anche la chitarra in maniera autonoma. Pensi che se fossi nata all’estero avresti avuto maggiori opportunità di farti conoscere al grande pubblico?
Sicuramente non avrei avuto grandi possibilità, ma qualcuna in più sì. Così come so per certo che avrei avuto anche più strigliate. Mi sarei sentita piccola piccola, ancora più piccola di adesso. Ad ogni modo, con lodi o con pomodori in faccia, avrei suonato in giro tantissimo.

Tra l’esperienza in gruppo (Shotgun Babies) e il progetto da solista cosa scegli?
Scelgo il tempo, il suo svolgersi disinvolto. Ogni esperienza è in relazione ad esso. Le Shotgun Babies, al momento in stand by, sono state la cosa che abbia desiderato più fortemente in vita mia, monopolizzando la mia volontà dal 2006 (anno in cui cominciai la ricerca delle componenti) al 2013. Un desiderio struggente che non ha escluso critiche, errori, pianti, notti insonni al pensiero del “mollo tutto”. Tantissima gavetta, insomma. Il mio album solista, invece, è stato l’atto più agognato da sempre e il pensiero più penetrante, oserei dire trafiggente, degli ultimi tempi, tempi in cui di cose da dire e di dolori da raccontare ce ne sono stati fin troppi. Ogni artista ha bisogno di una dimensione sociale e di una solitaria. Ma di base c’è la stessa urgenza ad esprimersi. La famosa valvola da aprire. Le Shotgun incarnano più il primo tipo di percorso, con tutti i suoi risvolti divertenti, amicali e demenziali. In primis c’è stato il reciproco rispetto delle persone e dei loro stessi gusti, in ogni scelta. Sono stata molto fortunata a trovare una persona come Gianna, con cui è nata da subito una bella sintonia. Il progetto da sola è la facoltà di non avere limiti né di tempo né di contenuti o di scelte comunicative: nelle cose che si dicono, in come si dicono, se siano lente, veloci, ritmate o tristi. Per quanto nessuno abbia mai opposto dei veti, so per certo che nessuno mi dirà che un brano è troppo punk o troppo dark o che le ballad non si usano più. Quando nasce una canzone, nella mia testa è tutto pronto: gli arrangiamenti e persino i colori che userò nel video. Purtroppo so fin troppo bene quello che voglio e la dimensione solitaria mi velocizza moltissimo. Devo ottimizzare i miei tempi, perché compongo tanto.

Per portare a termine la pubblicazione del tuo cd ti sei avvalsa del “crowdfounding”. Ti va di spiegarci in cosa consiste e come ha reagito la gente a questa tua iniziativa?
Il crowdfunding è una forma di raccolta fondi collettiva, che avviene su Internet. Mi sono avvalsa del sito italiano Musicraiser, ottenendo il 118% dell’importo agognato. In pratica, ho chiesto di acquistare il mio disco in pre-vendita. Qualora non ce l’avessi fatta a raggiungere la soglia prefissata, gli acquirenti avrebbero visto tornare la somma versata nelle proprie tasche. L’idea non è nata da me, ma da alcuni miei sostenitori online, almeno un anno fa. Mi lamentavo spesso di non riuscire a starmi dietro economicamente (se dovessi registrare tutto quello che compongo sarei già sul lastrico), così mi è stato dato questo consiglio da un ragazzo che non conosco, Raul. Ho iniziato allora a preparare una sorta di piattaforma mediatica, curando per diversi mesi soprattutto i social e facendo dei veri e propri sondaggi, per sincerarmi del fatto che qualcuno mi avrebbe sostenuto. Venivo fomentata dagli utenti americani, di fatto, però, a contribuire alla raccolta sono stati soprattutto gli italiani. Ne approfitto per ringraziarli ancora.

Parlaci un po’ del brano “Para Lies”, di questo gioco di parole tra il termine “paralizzato” e “bugie paranoia”: da cosa nasce e di cosa parla esattamente la canzone?
La canzone è, banalmente, un brano d’amore. Parla di quella condizione del parlare senza essere ascoltati, del soffrire senza essere visti, dell’odiare amando, del sognare una sorta di deus ex machina, una causa di forza maggiore, che strappi via dalle relazioni asfissianti, insomma una condizione comune a molti individui e paralizzante. Scrissi questo brano, con il titolo “Paralyze”, per le Shotgun Babies. Lo registrammo al pc con una prima formazione, usando Audacity, senza metronomo e in una versione con l’organetto. Mi sembrava un’ingiustizia lasciarlo a quello stato poetico, ma larvale. E così è stato riarrangiato e ho riespresso la medesima condizione con un nuovo titolo e un gioco di parole.

Se rinascessi che musicista donna vorresti essere?
Vorrei rinascere me e gestire tutto in modo molto diverso. Ma questo precluderebbe probabilmente il processo creativo.

Molto del tuo sound ricorda il mondo delle fate; è un mio “viaggio mentale” o sei un amante di queste creature notturne?
Non sono particolarmente amante delle fate, ma sono una persona curiosa e, dunque, nella curiosità tout court rientra anche quella per il mondo dell’ignoto. Per un periodo la sete di conoscenza è diventata vera e propria bramosia, in termini di letture, soprattutto. Credo di non aver tralasciato nessuna branca di tutto quanto fosse ermetico. Nella vita mi è capitata qualche esperienza singolare, che mi ha fatto propendere su questo versante. Ma, come ben sanno gli orientali, e non solo, è un ciclo continuo: per guardare a tutto ciò che è fuori (in questo caso MOLTO fuori), bisogna anche e soprattutto guardarsi dentro. E poi ricominciare daccapo, in silenzio. Avendo l’amore come unica stella polare.

Quando intervistiamo artiste donne spesso gli chiediamo cosa significa essere una musicista donna oggi in Italia e se ci sono pregiudizi a riguardo oppure c’è stata un’evoluzione; tu -oltretutto- sei anche giornalista quindi puoi parlarci di questo argomento più ampiamente raccontandoci cosa significa essere una donna che scrive e suona…
Ho sempre tenuto, orgogliosamente, ad affermare che non ci siano pregiudizi di genere sessuale. Forse ci sono più pregiudizi di genere musicale, in un paese retrogrado come l’Italia. Eppure posso dire di aver subito alcune discriminazioni. A volte queste si trasformano in tristi vantaggi (uomini che si prodigano a caricare amplificatori, gestori di locali accondiscendenti – e mica poi tanto quanto non si creda – , ecc.), ma son pur sempre frutto di preconcetti. Quante volte mi son sentita dire di non accostarmi a un marchingegno (vedi loopstation, programmi per registrare, ecc.) perché troppo difficile da usare, per una donna. Ma il bello sta nella smentita. Il fattore sorpresa è uno degli elementi più divertenti dell’essere donna in una società antiquata. Nella scrittura vedo, invece, una maggior emancipazione, ma un altrettanto scarso rispetto dell’essere umano/lavoratore in sé.

Cosa ne pensi della scena di band “al femminile” presenti in Italia? Hai qualche preferenza in merito e/o vuoi suggerirci l’ascolto di qualche artista in particolare?
La adoro! Penso sia una delle scene musicali al momento più vive in Italia. Siamo in poche, ma ci stimiamo e ci vogliamo bene sinceramente. Siamo anche amiche nella vita, seppur lontane. Troviamo sempre il modo di incontrarci. Ovviamente, non posso non nominare le amiche Roipnol Witch e Lilith Le Morte, oltre all’adorata Lili Refrein, della quale condivido molto il mood e il modo di sentire e di pensare, è una persona splendida, carismatica, penetrante e una musicista strepitosa.

Hai dei live in vista?
Al momento solo uno, il 12 settembre a Porto Cesareo, in provincia di Lecce. Ma sto confermando delle date in giro per l’Italia per la prima metà di novembre. Sempre con la mia amatissima band (Andrea Benegiamo, Gabriele Gallucci e Salvatore Zullino). Ne vedrete delle belle!

Ringraziando Christine IX per la sua disponibilità a rispondere alle nostre domande, vi invitiamo quindi ad assaporare live l’ascolto in antemprima di “Can I Frame The Blue?”, la cui uscita ufficiale è prevista ad ottobre! Stay tuned! Stay Rock!

DAFNE D’ANGELO
Foto di Italida

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