FRONTIERS ROCK FESTIVAL VII ed. @ Live Club Trezzo sull’Adda (MI) 24/25-4-2025


FRONTIERS ROCK FESTIVAL Live Club – Trezzo sull’Adda 25/26/27 Aprile 2025
Bentornati al Frontiers Rock Festival: sono passati sei anni ma sembra che nulla sia cambiato dall’ultima volta.
La location è la medesima – il Live Club di Trezzo sull’Adda, la caratura internazionale non ha perso spessore, anzi ne ha guadagnato vista la enorme presenza di partecipanti da tutta Europa – dalla Danimarca alla Grecia, passando per Svizzera, Regno Unito, Germania, Svezia…
Ma sono da segnalare anche presenze transoceaniche, spettatori provenienti dal Canada o dall’Australia che non hanno voluto perdersi questo evento della durata di tre giorni – ecco una differenza rispetto all’edizione precedente – con ben 21 band e artisti, sempre in bilico tra i grandi classici e le cosiddette “new sensation”, tutti ovviamente targati Frontiers Records.
L’etichetta italiana, infatti, è tornata a scommettere su questo evento confidando su nomi di spicco quali gli Asia, headliner della prima giornata, Winger (alla loro ormai probabile ultima apparizione in terra italica), Mike Tramp pronto a riportare in auge le grandi canzoni degli White Lion, gli inossidabili FM o i favolosi Harem Scarem – a chiudere l’evento nella data della domenica 27 aprile.
Andiamo con ordine e cominciamo dal venerdì 25 aprile: il festival apre le danze con i poderosi Fans of the Dark, band svedese capitanata dal batterista Freddie Allen che offre al già nutrito pubblico presente le migliori atmosfere del hard’n’heavy anni 80, passando da momenti più “massicci” di stampo più classicamente metal a sonorità AoR o di matrice prog, confermandosi un’ottima scelta per l’apertura dell’evento.
Il pubblico si fa sempre più numeroso – forse oltre ogni aspettativa, vista anche l’ora: ecco salire sul palco gli svedesi – manco a dirlo – Art Nation, forti del loro sound melodico e sinfonico, moderno e classico allo stesso tempo: nonostante qualche problema tecnico, riescono a fare presa sull’audience anche grazie a brani come Need you to understand o Halo, potendo tutto sommato ritenere parecchio soddisfacente la loro prestazione.
Si cambia passo quando entrano in scena gli svizzeri Shakra, band di lunga esperienza che dimostra tutto il suo roccioso potenziale nei quaranta minuti a disposizione. Un hard rock robusto che guarda un po’ ai Krokus e un po’ ai Gotthard – tanto per dimostrare che la Svizzera non è solo cioccolato, orologi e banche: brani quali Ashes to ashes o la dinamica A roll of the dice dimostrano come il livello sia salito, anche per quanto riguarda il coinvolgimento del pubblico: una prestazione da manuale!
Sono quasi le 17:30 e mentre aspettiamo che salgano sul palco i Bonfire – paladini dell’Hard Rock teutonico sin dagli anni 80 – serpeggiano alcune voci su Hans Ziller, chitarrista e fondatore della band, che a quanto pare ha dovuto dare forfait per motivi di salute. Il combo tedesco si presenta infatti in un’inedita formazione a quattro, cercando di portare a casa lo show al meglio delle loro possibilità.
Se ci sono riusciti è merito della scaletta che propone brani immortali come Don’t touch the light, Sword and Stone e You make me feel e anche del lavoro della sezione ritmica – tra cui spicca il giovane Fabio Alessandrini, talento romagnolo già in forza agli Annihilator.
Altro acquisto recente è il cantante greco Dyan Mair – al secolo Kostas Matziaris – che ce la mette tutta per reggere il peso di uno show così importante e un’eredità pesante come quella dello storico Claus Lessmann. Purtroppo, un po’ penalizzato dai suoni non sempre perfetti, non riesce a dare il meglio di sé, tende spesso a strafare indulgendo sugli acuti – ma riesce a compensare con una buona presenza scenica. In definitiva, nonostante sia da sottolineare anche la prestazione a denti stretti del chitarrista Frank Pané, lo show non è stato memorabile; speriamo quindi di poter rivedere presto i Bonfire in una situazione più fortunata per gustare al meglio la loro musica in sede live.
Le difficoltà sul palco si perpetuano, difatti i canadesi Honeymoon Suite cominciano con un leggero ritardo: è un misero prezzo da pagare per potere vederli sfoggiare un talento e una forma invidiabili nonostante la lunga carriera. Sistemati i suoni, i cinque – alla loro prima volta in Italia, fanno capire cosa vuol dire imbracciare strumenti con tecnica ed espressività di alto livello: il carismatico cantante Johnnie Dee non perde un colpo e sa ben catturare l’attenzione del pubblico da frontman navigato quale è. Brani come Burning in love o Love changes everything dimostrano appieno che quella che abbiamo davanti non è una band di dinosauri rianimati – ma di musicisti di straordinaria caratura che sanno regalare uno spettacolo di grande gusto.
Tra una band e l’altra – come sempre accade in festival come questo – c’è il tempo per “distrarsi” chiacchierando con vecchi e nuovi amici, bevendo una birra, dando un’occhiata al merchandising oppure (quando se ne ha l’occasione) incontrando gli stessi musicisti.
Tra questi, ho avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere con Toby Hitchcock, straordinario cantante dei Pride of Lions, a metà pomeriggio – visibilmente dispiaciuto per essersi svegliato senza voce. Mi ha raccontato di aver fatto il possibile e che si sarebbe comunque presentato sul palco sperando di contare sull’aiuto del pubblico: così è stato ed i Pride of Lions nelle persone di Hitchcock e del mastermind Jim Peterik coadiuvati da membri degli Hell in The Club, formazione composta da validissimi musicisti italiani, salgono sul palco del Frontiers Rock Festival accompagnati dal boato della folla.
Toby si scusa immediatamente per la mancanza di voce, ma riesce ugualmente a brillare nell’immortale Eye of the tiger a cui é affidata l’apertura del concerto e nei brani estratti dal loro primo (e omonimo) album: It’s criminal, She’s gone e Sound of home, dopodiché deve necessariamente fermarsi.
Jim Peterik non è in grado di sopperire vocalmente alle prestazioni di Hitchcock, ma fortunatamente Robin McAuley – attuale cantante dei Survivor – è già presente al festival, godendosi lo show in attesa di salire sul palco la domenica. Ecco che assistiamo alla magia: senza troppe difficoltà lo show dei Leoni si trasforma in un immenso ed emozionante tributo a Jimi Jamison, storico e compianto cantante dei Survivor a fianco dello stesso Peterik.
Con McAuley alla voce e con Hitchcock di supporto, la band ci regala gemme quali I can’t hold back, The search is over, High on you, la chicca In good faith ed infine Burning Heart, brano reso immortale dal quarto episodio del film Rocky. Un altro show penalizzato dalla sfortuna, ma che ha saputo emozionare e fare cantare tutto il pubblico, proprio come auspicato da Toby Hitchcock.
Tante emozioni tutte insieme stancano, si arriva alla conclusione della prima giornata con un’altra band incredibile – gli statunitensi Asia.
Oltre al loro nome, della band che ha scalato le classifiche oltre quarant’anni fa rimane solo il tastierista Geoff Downes – accompagnato da altri musicisti di enorme spessore quale il chitarrista John Mitchell, il cantante e bassista Harry Whitley e soprattutto quel mostro di batterista che é Virgil Donati.
Pur puntando su brani dall’indiscussa qualità quali Don’t cry, Only time will tell, Here comes the feeling e Sole Survivor – lo sfoggio di tecnica dei quattro rischia di avere lo stesso effetto della peperonata ad un pranzo estivo in famiglia, penalizzando un po’ il coinvolgimento del pubblico, che ad ogni modo risponde positivamente fino alla conclusione – affidata all’ovvia Heat of The Moment, grandissimo successo della band, rivelandosi una ottima chiusura di giornata.

Pronti per il secondo giorno? Il venerdì ci ha regalato una affluenza copiosa già dalle prime ore e il sabato non é da meno: anche il menu di oggi é gustoso e ogni artista vale la pena di tutta la nostra attenzione.
Non sono ancora le 15 e sale sul palco la prima delle “quote rosa” del festival, la giovanissima, talentuosissima australiana Cassidy Paris, che già dal venerdì si aggirava per il festival regalando sorrisi e gentilezze a chi la fermava per fare due chiacchere e una foto. Figlia di Steve Janewski, chitarrista dei Wicked Smile e qui presente in veste di bassista, Cassidy è in tour in Europa al seguito dei canadesi Harem Scarem – previsti come dicevo per domenica – e a quanto pare si sta godendo la sua “pausa italiana”, caricando le batterie per dare il massimo durante i pochi minuti a disposizione.
Ed infatti Cassidy non si risparmia, regalando un energetico spettacolo grazie a brani convincenti quali Midnight Desire, Danger ed il nuovo apprezzatissimo singolo Butterfly, nonché la cover di I hate myself for loving you di Joan Jett.
Cresciuta sotto l’ala protettiva di Paul Laine (Danger Danger e The Defiants) sa mescolare la grinta dell’hard rock con momenti più nitidi e pop – cercando di essere un po’ Madonna e un po’ Lita Ford: inoltre la band gira a mille e si diverte, incomprensibile come poi abbiano dovuto interrompere il tour a causa dello split improvviso con i fratelli Rogowski, rispettivamente chitarrista e batterista della band.
Tirando le somme, la ragazza venuta dall’altra parte del mondo ha tutti i numeri per avere un grande futuro – e quanto offerto oggi lo dimostra: sicuramente tra i migliori momenti del FRF sinora.
Parlando di terre lontane, i prossimi in scaletta sono i Girish And The Chronicles abbreviati in GATC, band indiano/nepalese proveniente da Bangalore e capitanata dal cantante Girish Pradhan. Sconosciuti ai più ma con tre album in curriculum (di cui uno ristampato recentemente), i quattro mostrano una grande energia, grazie a suoni robusti ed un songwriting abbastanza originale – ma anche e soprattutto una padronanza del palcoscenico da band navigata regalando una prestazione dinamica e convincente. Pur senza eccellere, hanno sicuramente guadagnato attenzione e parecchi fan.
E’ pomeriggio inoltrato, quando sale sul palco l’inglese Chez Kane, riportando l’intero Live Club negli anni 80: una voce potente ed espressiva, piglio grintoso ed un outfit aggressivo e audace – unito ad una serie di canzoni in scaletta decisamente valide quali la scatenata Too late for love o la conclusiva Rocket on the radio, regalano una delle migliori prestazioni del festival.
La band è al massimo e Chez Kane non perde un colpo: forse l’unica nota stonata è avere inserito una cover in scaletta (la sempre fantastica Love is a battlefield di Pat Benatar, molto ben interpretata) togliendo spazio a brani originali tratti dai suoi due ottimi album. Poco male, lo show è stato una grande macchina del tempo, divertente dal primo all’ultimo istante – un ottimo antipasto per i gruppi a venire.
Ed eccoli i Crazy Lixx, immancabili in festival come questi e forti di un nome ormai consolidato tra gli amanti dell’Hard Rock del secondo millennio.
Complice forse la effervescente prestazione di Chez Kane, di cui il cantante Danny Rexon è padrino musicale, produttore e sostenitore, i Lixx non sembrano esplodere. Chiariamoci – il loro show sprigiona sempre potenza e sudore, ma ciò che ho percepito è un po’ di staticità emotiva, come se stessero “eseguendo” e non solo suonando. Brani come il classico Hell raising women, la brillante Little miss Dangerous, Silent Thunder, la evitabilissima cover dei Bonfire Sword and Stone (sentita il giorno prima proprio dalla band “originale”) fino a Blame it on love sono ottimi ingredienti di uno show molto bello a cui forse è mancato di quel pizzico di “sale” – ma d’altronde capita a chiunque di non poter sempre essere al 100%.
Altri veterani di questo ed altri festival sono gli inglesi FM – sempre attesi ed acclamati da ogni fan del rock melodico sin dagli anni ’80. Eccoli, dunque – nuovamente sul palco del Live Club di Trezzo, forti del buon album Old habits die hard datato 2024, degno successore di Thirteen dai quali vengono estratti Out of the blue e Turn this car around. Durante il loro set la band britannica offre una prestazione come sempre all’altezza, con uno Steve Overland impeccabile che affronta anche vecchi successi quale l’intramontabile That Girl, Let love be the leader, Someday you’ll come running, o I belong to the night senza un minimo di sbavature – per la gioia dei tantissimi presenti (la venue conteggia probabilmente il massimo delle presenze in questo momento), molti dei quali sono qui apposta per loro. Una vera garanzia, una band che non risente minimamente del tempo che passa e che sa maturare come il migliore dei vini.
In molti li hanno sempre considerati “i fratelli minori degli Europe”, talvolta a ragion veduta: sto parlando dei Treat, navigata band svedese un po’ troppo sottovalutata che – complice anche l’alta posizione nel bill di questa giornata – sta attirandosi addosso gli occhi e l’attenzione di tutti i presenti.
L’ascoltatore medio dell’Hard Rock melodico – oltre a non essere più “di primo pelo”, ha viaggiato parecchio per poter assistere ai concerti delle sue band preferite: dunque in molti ricordano anche prestazioni non esaltanti di Robert Ernlund e soci, ma fortunatamente i cinque appaiono in splendida forma, districandosi bene in una scaletta un po’ lunga ma efficace – che ha come punti di forza brani quali Papertiger, Home of the Brave, Rev it up, Sole Survivor o We own the night – a costituire la parte centrale di uno show energico e coinvolgente, andando a superare le aspettative: questi ragazzi ci sanno ancora fare!
Anche il sabato è passato in fretta, con più emozioni di un giro sulle montagne russe: sono passate le 22 ed è tempo del piatto forte, ovvero il ritorno degli Winger, alla loro probabile ultima presenza in Italia prima del definitivo pensionamento. L’attesa è tanta, le aspettative alte: quasi subito la band presenta alcuni dei suoi brani migliori – quasi come un pugile che cerca di mandare l’avversario KO in fretta sfoderando subito i suoi colpi più poderosi. Seventeen, Can’t get enuff e la sempreverde Down Incognito sanno coinvolgere l’attenzione dell’audience – ma l’imprevisto è dietro l’angolo: proprio durante un altro brano strepitoso come Miles Away, Reb Beach (apparso subito un po’ preoccupato) riscontra problemi con la chitarra, il cui setup cede, compromettendone il suono. Kip Winger non ha scelta che fermare il brano a metà, tenendo in stand by il concerto in attesa che la problematica venga ripristinata. Un incupito Reb Beach ci prova nuovamente, ma è costretto a cambiare strumento con un set up diverso, riuscendo comunque ad affrontare alla grande il resto della scaletta – rendendo bene in grandi classici come Headed for a heartbreak o Easy come Easy go.
Forse a causa di questi problemi, la band – Kip in primis – è apparsa un po’ “legnosa”, pur impegnandosi al massimo per portare a casa un risultato soddisfacente grazie a tanta esperienza, professionalità e personalità: la giornata di sabato si conclude quindi con un retrogusto vagamente amaro, ma con un forte sentore abboccato e festoso – in attesa dell’ultimo brindisi domenicale.

Domenica, appunto: si comincia un po’ in sordina con gli svedesi Seventh Crystal, autori di un buon hard rock melodico di stampo tipicamente nordico che offrono una buona prestazione nonostante non spicchino per originalità. Qualche dubbio ha anticipato la successiva presenza della band serba The Big Deal forse a causa di una certa esposizione mediatica che punta molto sulla avvenenza della cantante Ana Nikolic e della tastierista (e cantante) Nevena Brankovic – ma nei sette brani a loro disposizione hanno dimostrato ampiamente di meritarsi questo palcoscenico, sfoderando grinta e talento, nonostante il lutto recente che ha colpito Nevena. La cantante e tastierista ha infatti dimostrato grande forze concentrandosi sullo show e ricevendo a maggior ragione tantissimi applausi e un grande incoraggiamento. Insomma, brani come Better than hell, Sensational e la recente Survivor (singolo estratto dall’album nuovo di zecca intitolato Electrified) hanno dimostrato che la band non è solo fumo – e che l’arrosto è davvero squisito.
Il prossimo in scaletta è il talentuoso Ronnie Romero, già visto al Frontiers Rock Festival assieme ai CoreLeoni e dimostrando di poter essere un più che degno sostituto del compianto Steve Lee durante i brani dei mai troppo osannati Gotthard. Oggi però è qui in veste di artista solista, bilanciando brani originali – quali i nuovi Castaway on the Moon e Vengeance – con brani tributo al “padre putativo” Ronnie James Dio, accolti con grande tripudio dai presenti.
Come si fa a rimanere impassibili di fronte a brani immortali quali Stargazer e Kill the King, specie se ottimamente interpretati? Romero ci regala una prestazione magistrale anche su Rainbow in the dark e la chicca conclusiva: Separate ways dei Journey – coinvolgente e ben suonata da una band che sa il fatto suo. Se la resa delle cover è stata perfetta, il divario con i brani originali si è fatto sentire – ma ciò non ha tolto punteggio ad una prestazione comunque degna di nota: aspettiamo nuovamente Ronnie in Italia per tornare ad infiammare i nostri palchi!
Da un cantante solista ad un altro: qualche anno in più per il veterano Marc Storace – storica voce degli svizzeri Krokus, che mostra una grande grinta ed una voce graffiante ancora carica di passione.
Tra ottimi brani solisti (Rock this city o Screaming demon, ad esempio) e brani leggendari dei Krokus (Midnite Maniac, To the Top, Hellraiser tra gli altri), Storace trova il tempo per una cover: si tratta di American Woman dei Guess Who, interpretata a due voci con il rientrante Ronnie Romero – dimostrando come questa musica possa unire vecchie e nuove generazioni di cantanti.
Con la conclusiva Rock N’Roll tonight si chiude una ulteriore prestazione granitica – nell’attesa di Robin McAuley, terzo solista in fila della giornata conclusiva del Festival.
Già visto in supporto ai Pride of Lions, venerdì – il cantante americano si avvale di una “all star band” tutta italiana composta da membri di band quali Vision Divine, DGM o Deathless Legacy, pronto a proporre una serie di brani solisti e qualche brano del progetto McAuley/Schenker Group.
Come nel caso di Ronnie Romero – la differenze tra i pur buoni brani solisti (Say goodbye o Feel like hell tra gli altri) e i brani del periodo “Schenkeriano” creano un forte divario nello spettacolo, virtualmente diviso in due e sottolineato dalla reazione del pubblico, più partecipe in brani quali Love is not a Game o la conclusiva Anytime: la qualità è altissima ma non abbastanza per rendere lo show memorabile.
E’ sera, questa domenica sta passando velocissima e con essa anche il Frontiers Rock Festival 2025: i CD della label napoletana stanno a poco a poco esaurendosi, il pubblico ha riempito il locale, i meet and greet continuano, gli immancabili personaggi del festival continuano imperterriti a cantare e ballare al ritmo delle band, l’atmosfera è sempre più densa in attesa di Mike Tramp – o dei White Lion?
Il ritorno del fascinoso singer è certamente uno dei momenti topici dell’intero festival, vista anche la possibilità di una scaletta totalmente concentrata sula band che lo ha reso celebre.
Mike si presenta in ottima forma, istrionico e con la battuta pronta e con il suo inconfondibile timbro vocale – forse un po’ appesantito dall’età ma comunque espressivo e potente.
Lo show comincia e sarebbe sufficiente il trittico in apertura per farlo risultare convincente: Lights and thunder, Hungry e Lonely nights sanno come fare presa sui presenti; il chitarrista Marcus Nann non è certamente l’istrionico Vito Bratta, ma ha un enorme talento e si sublima nelle ottime prestazioni in brani quali El Salvador, Little Fighter e soprattutto la celeberrima Broken Heart – letteralmente cantata a squarciagola da tutti quanti.
When the children cry è da brividi, prima che Wait e Lady of the Winter chiudano uno show vibrante ed appassionato – giudicato da molti l’apice dell’intero festival.
Certo, l’apice finché gli Harem Scarem non hanno messo piede sul palco: i quattro canadesi sono in pieno tour in supporto al loro ultimo lavoro Chasing Euphoria e presentano quindi una scaletta che bilancia ottimamente brani nuovi – quali la title-track o la convincente Better the devil you know a grandi classici tratti dall’omonimo esordio: Hard to love – superba, insieme a Distant Memory, la commovente Honestly e la gigantesca Slowly Slippin’ away: tutte canzoni che sembrano non avere perso un millesimo della loro freschezza. C’è spazio – tanto – per brani tratti da quel capolavoro che è Mood Swings, datato 1993 ma che sembra scritto pochi mesi fa: lo dimostrano brani quali If there was a time, Sentimental Blvd (cantata dal batterista Darren Smith), la toccante Stranger than love o la granitica No Justice, un grande classico nella chiusura degli spettacoli degli Scarem.
I quattro sono musicisti sopraffini e si destreggiano bene anche presentando brani altrui – quale Summer of 69 del connazionale Bryan Adams, cantata dal bassista Mike Vassos – ma anche continuando a giocare in casa proponendo un brano solista del chitarrista Pete Lesperance (Boy without a clue), cantato da egli stesso senza stravolgere l’atmosfera generale dello show.
Allo stesso modo il brano The death of me, cantato assieme alla frizzante Cassidy Paris (compagna di tour della band in giro per l’Europa), sa aggiungere ulteriore spessore al divertente spettacolo offerto da Harry Hess e soci: il talento è fuori discussione, la capacità interpretativa e la “vis artistica” del quartetto ha saputo trascinare gli stoici rockers presenti fino alla fine. A loro, l’onore di appuntarsi la medaglia di migliore prestazione dell’intero festival – che è stato (pur con qualche intoppo qua e là – ma a chi non succede?) totalmente all’altezza delle aspettative e delle attese di tutti.
Gli Harem Scarem sono stati certamente la ciliegina su una torta golosa, ma sono da sottolineare le prestazioni magistrali di FM e Honeymoon Suite, l’esplosività di Chez Kane e Cassidy Paris, la carica di Mike Tramp e degli Shakra – nonché la forza emozionale dei Pride of Lions.
Insomma un festival impegnativo, altalenante, divertente, rutilante e ricco di grandi qualità – tra graditi ritorni, nuove leve e grandi classici: ancora una volta il Frontiers si è confermato evento leader in Europa per tutti coloro che amano uno stile musicale certamente attempato, ma inossidabile!
E già non vediamo l’ora di avere notizie della prossima edizione…
Report by SANTI LIBRA
Credits: si ringrazia Frontiers e Live Club per la gentilissima disponibilità e la perfetta organizzazione dell’evento.

Bolognese, classe 1978 – appassionato scrittore sin da piccolo e devoto alla musica al 100% Cresciuto con i grandi classici della musica italiana ed internazionale, scopre sonorità più pesanti durante la gioventù e non se ne separa più, maturando nel contempo il sogno di formare una rock band. Si approccia inizialmente al pianoforte e poi al basso elettrico – ma sarà la sua voce a dargli il giusto ruolo, facendosi le ossa in diverse band e all’interno di spettacoli che coprono vari generi musicali, fino a fondare i Saints Trade – band hard rock con cui sforna diversi album e si toglie più di una soddisfazione in Italia e all’estero, fino a realizzare un altro piccolo sogno – quello di scrivere di musica entrando a far parte della grande famiglia di TuttoRock.